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Perché M

A volte è bello sbagliarsi. Perché così si imparano cose nuove. Per esempio: per anni ho creduto che potpourri volesse dire mistura di profumi. Poi un mio amico francese mi ha detto che in realtà pot pourri vuol dire “vaso putrido”. Ma guarda un po’ – ho pensato – non sempre quello che crediamo di sapere è vero.

Di norma, però, cambiare idea non è così facile. Me ne sono accorto bene qualche mese fa, quando sono capitato sul profilo Facebook dell’ex ministra per l’Integrazione Cecile Kyenge Kashetu. E ho cominciato a leggere i commenti. L’ho fatto sapendo ciò che avrei trovato: un pot indubbiamente molto pourri di insulti razzisti, accuse alle élite buoniste e teorie del complotto.

Da cinque anni in qua mi occupo quasi soltanto di immigrazione. Conosco dati, fonti e normative sul tema. Così ho cominciato a chiedere ai commentatori: su quale base Lei parla di milioni di clandestini? Che cosa le fa pensare che in Italia ci siano dieci milioni di musulmani? Quali fonti può citare per lo stupro/omicidio che Lei attribuisce a un branco di extracomunitari?

Ho argomentato, fornito dati, postato link a fonti qualificate. Nella maggior parte dei casi ho ricevuto insulti. Con alcune persone però sono riuscito a scambiare qualche battuta – a denti stretti, ma educata. Ho chiesto da dove attingessero le loro informazioni. Il risultato – prevedibile – era una serie di “Sì, ma allora…” che portava la discussione ogni volta su un nuovo terreno: sì ma allora l’Europa? Sì ma allora il fondamentalismo islamico? Sì ma allora i pensionati?

L’effetto “backfire”

Gli psicologi della comunicazione lo chiamano effetto “backfire”. In pratica: quando qualcuno ci dice che una cosa che noi riteniamo vera è sbagliata la nostra prima reazione non è verificare la nuova informazione ma difendere la nostra personale convinzione. E questo vale soprattutto per questioni che ci riguardano da vicino, come ad esempio la sicurezza nostra e dei nostri cari

In passato il nostro senso di sicurezza si fondava largamente sull’assunto che vi fossero istituzioni e autorità che vigilavano sulle nostre esistenze: ingegneri, medici, magistrati – anche politici. E la loro autorità derivava da un accesso selettivo all’informazione. Insomma: erano persone erudite e per questo degne di fiducia.

Questo perché l’accesso all’informazione era più limitato. E non tutti potevano formarsi un’opinione su questioni di carattere accademico come le cause dell’immigrazione, l’efficacia dei vaccini o la sfericità della Terra.

Internet ha abbattuto queste limitazioni, permettendo a tutti di accedere a un serbatoio pressoché illimitato di informazioni. Informazioni che – come abbiamo visto – il nostro cervello protegge gelosamente.

Ora, va detto che acquisire delle informazioni è una cosa – organizzarle nella propria testa è un’altra. Per questo servono anni di studio. È la ragione per cui se leggo un manuale di anatomia posso sapere più o meno dov’è l’appendice. Ma questo non vuol dire che so operare un’appendicite.

E in più c’è informazione e informazione.

Le banane assassine

A me non piacciono le banane. Onestamente non so come si possa mangiare un frutto molliccio e pieno di filacce pelose. Mettiamo che voglia convincere altra gente che le banane sono ripugnanti – anzi, che sono proprio nocive alla salute. Mortali, persino. Una volta avrei probabilmente dovuto svolgere ricerche, fare esperimenti, contattare esperti e cercare un editore per pubblicare i risultati del mio lavoro.

Nell’era di internet è sufficiente attivare un blog o magari un gruppo Facebook con un nome accattivante come “Bananageddon”. Quando poi dietologi e medici dovessero mettere in discussione le mie conclusioni basta che invochi una grande cospirazione internazionale delle compagnie bananiere.

Sembra assurdo, ma è esattamente quello che è avvenuto alla fine degli anni ‘90 in uno dei primi casi di fake news virali documentati in rete. All’epoca non c’era neppure Facebook: la catena di Sant’Antonio sulle banane che portano un virus capace di provocare la necrosi dei tessuti è partita via mail. E in poche settimane ha provocato una flessione delle vendite di banane

Se a questo punto state pensando: aspetta un attimo. L’ho sentita anch’io questa storia. E in effetti c’era qualcosa di vero: non sono morte delle persone? Questo è esattamente l’effetto “backfire” che alza le barricate. Il cervello cerca di proteggere un’informazione che ha acquisito.

Noi non ce ne accorgiamo ma nella nostra testa infuriano ogni giorno decine di guerre di posizione – sui vaccini, l’Euro, i mutamenti climatici. Tutto è diventato una questione di bandiera.

E nessun altro tema polarizza tanto l’opinione pubblica quanto l’immigrazione.

La stessa vecchia storia

Ogni immigrato riceve 35 euro al giorno e sta in albergo a quattro stelle. Le ONG vengono pagate per trasbordare migliaia di persone dall’Africa in Italia. C’è un piano segreto per sostituire gli europei con orde di schiavi africani.

Negli ultimi cinque-sei anni abbiamo sentito tutti almeno una di queste storie. Sono vere? Decine di magistrati, economisti, sociologi e altri esperti dicono: “Assolutamente no

E allora perché continuano a circolare? Perché alla fine siamo bambini a cui piace sentire ripetere sempre le stesse storie raccontate esattamente allo stesso modo. Perché ci fanno sentire sicuri e nel giusto.

Per questo motivo se qualcuno tira fuori la questione dei 35 euro o il piano segreto delle ONG o l’invasione dei “neri” serve a poco dirgli: no guarda, ti sbagli – i 35 euro vanno per il 95 percento alle cooperative e aziende italiane che si occupano di accoglienza; le ONG sono formate da volontari che rischiano la vita per salvare dei naufraghi. E gli africani del Subsahara in Italia sono meno di 400.000 – pochini per sostituire 60 milioni di italiani.

“Questa storia non la conosco”, dice il cervello. E’ come dire che Cappuccetto Rosso nel bosco incontra un tramviere. O che Cenerentola al ballo ci va a bordo di un Ape Car. Ed ecco le barricate.

Il pianista e il tarlo

Le barricate che il nostro cervello erige hanno una particolarità. Sono molto solide contro gli attacchi dall’esterno. Ma basta una leggera spinta dall’interno e vanno giù come castelli di carta.

Per sapere come funziona questo sistema basta chiedere a Daryl Davis

Davis non è un sociologo né un esperto di comunicazione. E’ un pianista R’N’B. Ed è responsabile per aver fatto uscire più di 200 persone dalle file del Ku Klux Klan, uno dei movimenti razzisti e suprematisti bianchi più feroci e radicali. Ah… va detto che Davis è un uomo di colore.

E come ha fatto? “Ho ascoltato quello che avevano da dire”, dice Davis. Un musicista deve avere prima di tutto un buon orecchio. A forza di ascoltare, Davis ha capito che questi sedicenti Cavalieri Bianchi col loro apparato di dragoni, cappe e spade in realtà sono uomini che hanno sentito ripetere sempre le stesse storie fin da bambini – sui neri, sugli ebrei, sui messicani.

E allora ha cominciato a chiedere loro: chi ti ha raccontato questa storia? Perché, secondo te, te l’ha raccontata? Dopo un po’ i suprematisti più convinti cominciavano a incespicare. Perché nelle loro barricate si era annidata una bestia più feroce e vorace di qualsiasi dragone: il tarlo del dubbio.

In effetti se c’è una cosa che ci piace ancora meno che cambiare idea è renderci conto che le nostre idee non ci appartengono

Un’altra storia

Mentre leggevo le risposte dei fan – chiamiamoli così – dell’ex ministra Kyenge mi sono reso conto che le mie argomentazioni, i miei dati e i miei link avevano la stessa efficacia di una salva di palline da ping pong su un bunker di cemento armato. Semplicemente, stavamo raccontando storie diverse.

E’ per questo che ho cominciato a lavorare al podcast: per capire da dove nascono certe storie e chi le mette in circolazione – e naturalmente perché.

Il podcast è per tutti. Per chi condivide le mie posizioni e per chi le osteggia. E mi piacerebbe che diventasse lo spunto per discutere, per confrontare idee e storie diverse.

A essere sinceri dubito fortemente di poter cambiare l’opinione di una sola persona. Ma, come ho già detto, a volte è bello sbagliarsi.

Fabio Ghelli, Berlino 21 Marzo 2019