La fine di luglio del 2011 era stata piovosa a Oslo – una di quelle estati nordiche in cui ogni raggio di sole è un’amara consolazione. Forse per questo qualcuno ha pensato a un tuono quando, verso le tre di pomeriggio del 22 luglio, un boato ha scosso la città.
Invece era un furgone bianco caricato con quasi una tonnellata di fertilizzante esplosivo parcheggiato tra il palazzo del governo e il Ministero del Petrolio e dell’Economia. Otto persone sono morte nell’esplosione.
Polizia, pronto intervento e pompieri sono subito sul posto. I feriti vengono portati in ospedale, l’intero quartiere amministrativo viene fatto evacuare. A quanto pare ci sono altri ordigni sparsi per la città. Nessuno conosce il movente dell’attentato. Si parla di islamisti. La televisione invita tutti a restare in casa.
Circa due ore più tardi un uomo in uniforme si presenta all’imbarcadero di un traghetto a 35 chilometri della città. Al traghettatore dice di essere un poliziotto e di dover andare sulla vicina isola di Utoya per interrogare alcune persone in merito all’attentato. Sull’isola si sta svolgendo l’annuale meeting dei giovani del Partito Laburista Norvegese. L’uomo ha con sé diversi armi automatiche – niente di strano, pensa il traghettatore, visto lo stato di emergenza.
Arrivato sull’isola, l’uomo sale verso il campeggio dove sono radunati i partecipanti al meeting. Non appena vede i primi ragazzi, imbraccia il fucile.
Verso le cinque e mezzo l’uomo chiama la polizia dall’isola. Dice di chiamarsi Anders Behring Breivik e di essere un ufficiale del movimento di resistenza norvegese. “Ho compiuto la mia missione. Venitemi a prendere”, dice.
Intorno a lui ci sono i cadaveri di 77 ragazzi e ragazze.
Fonti: BBC e The Guardian
L’attentato di Oslo è il più sanguinoso attentato terroristico mai avvenuto in Norvegia e uno dei più efferati in Europa.
E perché? Che cosa ha spinto un 32enne taciturno e introverso che abitava ancora coi genitori a compiere una simile carneficina?
I motivi sono tutti contenuti in un Manifesto che Breivik ha pubblicato online poco prima di dare inizio all’attacco e che si chiama: “2083 – una dichiarazione di indipendenza europea”.
Sono più di 1.500 pagine. Una lettura pesante. Ma istruttiva.
La prima metà è una specie di mostruoso pastiche di articoli cuciti insieme da pezzi di blog della nuova destra anti-Islam e anti-immigrazione. Sono tirate furibonde contro l’Islam, l’Unione Europea, gli immigrati, le élite intellettuali, i leader di governo corrotti, le femministe – insomma, il tipico catalogo di nemici della nuova destra. Il filo conduttore è uno: la società e la cultura occidentale sono sotto attacco.
Da parte di chi? Secondo Breivik si tratta di un grande complotto di ispirazione marxista per creare uno Stato Islamico europeo chiamato Eurabia – perché, come e dove si configuri questo intreccio di Capitale e Corano non è dato sapere.
A più riprese Breivik parla però di genocidio dei popoli Europei :
“Ho scritto che quello che sta avvenendo in Europa occidentale è un sanguinoso genocidio. Ed è un genocidio a cui molti nativi europei stanno attivamente partecipando”. Suona familiare?
Nella seconda parte Breivik invece lascia da parte la teoria. In più di 700 pagine spiega con assoluta meticolosità come realizzare un attentato terroristico, partendo dalle fonti di finanziamento, passando per gli armamenti, fino alla scelta degli obiettivi. E dà consigli ad altri cavalieri templari – per usare le sue parole – che volessero seguirlo sul cammino della Guerra Santa.
“Una volta che decidi di colpire è meglio uccidere tante persone che non ucciderne troppo poche o si rischia di ridurre l’impatto ideologico dell’azione. Spiega bene quello che hai fatto (in un annuncio distribuito prima dell’azione) e assicurati che tutti capiscano che noi, i popoli liberi dell’Europa, colpiremo ancora e ancora”.
Più si va avanti nella lettura, più si ha l’impressione di essere lì, nella penombra della sua stanza in casa dei suoi genitori, e di osservarlo mentre, alla luce del monitor, naviga tra un blog della nuova destra, un catalogo di armi automatiche e una community per giochi online. E’ lì che è avvenuta la trasformazione – da nerd appassionato di armi e graffiti a qualcosa di diverso, di feroce e determinato.
In controluce il torrenziale Manifesto è però più di ogni altra cosa la trama di un film – un film che ha lo stesso Breivik come protagonista.
È un filmaccio d’azione che abbiamo tutti già visto: un eroe solitario in possesso di un pericoloso segreto cerca di mettere in guardia il mondo. Una potente organizzazione dal volto bonario – ma in realtà dai perfidi intenti – cerca di metterlo a tacere. Aiutato da pochi, fedeli alleati, l’eroe passa all’azione. Ma l’élite corrotta gli mette i bastoni tra le ruote: l’eroe viene arrestato e processato. Ma prima di essere condannato l’eroe enuncia un monologo che scuote le coscienze del pubblico e innesca la rivoluzione.
E il monologo è già lì pronto, nel Manifesto: “So che la verità che io rappresento è dura da accettare in questi tempi politicamente corretti, ma la maggioranza dei liberi e patriotici europei apprenderà presto che quello che dico è la verità. Noi abbiamo il popolo dalla nostra parte. Abbiamo la verità dalla nostra parte. E abbiamo il tempo dalla nostra parte”.
L’eroe si sacrifica perché il suo messaggio viva e si diffonda.
E’ il delirio di un matto col complesso di Gesù Cristo, si potrebbe dire. Se non fosse per un piccolo particolare: almeno in un punto Anders Behring Breivik aveva ragione.
Breivik ha ragione quando dice che ha il tempo dalla sua parte. Negli ultimi otto anni, infatti, molto di quello che ha scritto nel suo manifesto – le tirate sul genocidio dei bianchi e sull’Eurabia – è passato da essere materia di discussione nei più oscuri e radicali forum dell’estrema destra a essere apertamente discusso nei parlamenti europei.
Fonte: Washington Post
Per le elezioni europee 2019 l’Alternativa per la Germania ha pubblicato manifesti elettorali su cui si vede un dipinto in cui uomini d’aspetto arabo scrutano e palpeggiano una schiava bianca. Lo slogan: perché l’Europa non diventi l’Eurabia.
Fonte: Die Welt
In Austria l’FPÖ, alleato di governo del Partito Popolare, ha costruito gran parte delle proprie campagne elettorali sulla lotta a una presunta islamizzazione dell’Europa.
E un altro politico di spicco della nuova destra populista europea, l’olandese Geert Wilders scriveva l’anno scorso su Twitter: “La nostra popolazione viene sostituita. I nostri leader lo stanno permettendo. Ci stanno tradendo. Dobbiamo resistere contro l’islamizzazione e contro questi leader traditori. Mai più. Chiudiamo le frontiere. Abbandoniamo l’Unione Europea e recuperiamo la nostra sovranità, de-islamizziamo le nostre nazioni e facciamo il nostro dovere di patrioti!” Anche questo non sfigurerebbe nel Manifesto di Breivik.
Ma non sono solo i partiti della destra radicale. Poco dopo il massacro di Utoya, il Presidente tedesco Christian Wulff aveva detto senza mezzi termini: l’islam è parte della Germania. L’anno scorso il leader dei Cristianosociali tedeschi e Ministro dell’Interno Horst Seehoofer dice invece l’esatto contrario: l’Islam non apparterrà mai alla Germania
Ah… e poi c’è lui:.
Questo è l’attuale ministro degli Interni italiano Matteo Salvini che, insieme agli alleati Marine Le Pen del Front National e Marcus Pretzell dell’AfD annuncia un fronte comune contro il trattato transatlantico TTIP. Parla di “Santa Alleanza dei popoli europei contro un tentativo di genocidio”. Sì vabbeh, verrebbe da dire, il TTIP è un accordo commerciale – giustamente controverso. Ma che c’entra il genocidio? E la Santa Alleanza?
E vabbeh, che male c’è? Sono posizioni legittime, sottoscritte da milioni di persone – ed è giusto che vi siano politici capaci di interpretare e articolare queste ansie in un sistema democratico. Altrimenti – Breivik l’ha dimostrato – c’è il rischio che la rabbia e la frustrazione di tanti cittadini si esprimano in maniera violenta.
C’è rischio che qualcun altro metta mano alla pistola.
Il 3 febbraio 2018 Jennifer, una ragazza nigeriana da poco in Italia, è in compagnia di un’amica davanti alla stazione di Macerata. Lì per lì non si accorge di una grossa auto nera che fa lentamente il giro della rotonda. L’auto si ferma proprio davanti a lei. Dal finestrino esce una mano – armata con una pistola Glock calibro 9. Jennifer è impietrita dal terrore. La pistola è puntata direttamente verso il suo petto. L’amica capisce la situazione e tira Jennifer a terra. Parte un colpo che raggiunge la ragazza alla spalla. L’automobile parte a tutta velocità accompagnata dalle urla della ragazza
Fonte: Il Gazzettino
Poco dopo l’auto nera si ferma davanti al Monumento ai Caduti. Ne esce un uomo di 28 anni, fisico massiccio, testa rasata. Le sirene della polizia si stanno avvicinando. L’uomo sale le scale del monumento e – con compostezza rituale – si toglie la giacca e si avvolge in una bandiera italiana. Quindi, come se stesse posando per un invisibile schiera di fotografi, fa il saluto romano
FONTE: Repubblica
Sei persone sono rimaste ferite nell’attentato – due gravemente. Vengono dal Ghana, dal Mali, dalla Nigeria, dal Gambia.
Sulle motivazioni dell’attacco ci sono da subito pochi dubbi: l’attentatore, Luca Traini, è conosciuto per la sua verve xenofoba, le sue simpatie di estrema destra – e per la sua candidatura alle amministrative tra le file della Lega.
E che cosa dice il segretario del partito di Traini mentre ancora i feriti vengono trattati d’urgenza in ospedale?
Il criminale è chi ha permesso l’immigrazione. Non uno che ha sparato 30 colpi addosso a persone inermi.
Beh… ma quindi nel momento in cui il partito di Traini dovesse andare al governo e questo partito mettesse un freno all’immigrazione, ovviamente, questo stato d’emergenza dovrebbe finire. E la violenza scomparire.
Questo accadeva nel luglio del 2018, appena un mese dopo l’insediamento del governo di Lega e Cinque Stelle. Ma la cosa è andata avanti. In tutto il 2018 il numero di violenze fisiche a sfondo razzista è triplicato rispetto all’anno prima. Triplicato, da 46 a 126 casi – e questi sono solo i casi denunciati.
Il rapporto 2018 dell’associazione Lunaria che da anni si occupa di razzismo in Italia sembra un bollettino di guerra
FONTE: LUNARIA
C’è il 27enne del Camerun preso a bastonate a Sarno. Ci sono i ragazzi del Mali bersaglio di spari a Napoli. Ci sono i migranti feriti da armi ad aria compressa a Latina a e Forlì. Ci sono gli abitanti dei centri d’accoglienza aggrediti a Sulmona, Atena Lucana e Pescolanciano vicino a Isernia. Ci sono i due ragazzi del Niger e del Senegal assaliti da gruppi di razzisti a Rimini e Partinico. Un altro camerunense colpito da un proiettile ad Aprilia. E la bambina rom di quattro mesi presa a fucilate a Roma. E poi c’è Sacko Sumayla, il sindacalista scomodo assassinato a Rosarno – solo per citarne alcuni.
Fantasie, dicono dal partito di Traini. Non c’è nessun allarme razzismo. E intanto le violenze continuano.
FONTE: Il Messaggero
Sarebbe tuttavia sbagliato guardare all’attuale ondata di odio e intolleranza come a un’onda anomala generata da una particolare congiuntura politica. Essa è in realtà cresciuta per anni – nel disinteresse e spesso colla complicità di chi oggi grida allo scandalo.
Il razzismo in Italia è un problema molto serio. E negli ultimi anni è diventato un’autentica piaga sociale: secondo l’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell’OSCE in quattro anni i “crimini d’odio” in Italia sono aumentati di dieci volte: da 71 nel 2012 a più di 800 nel 2016 – e di questi quasi la metà aveva una motivazione razziale.
Vabbeh… Le teste calde ci sono dappertutto. E poi con tutti questi immigrati che sono arrivati negli ultimi anni… Magari in situazioni di degrado sociale – magari nelle periferie dove immigrati e italiani poveri condividono lo stesso disagio – può capitare che a un italiano o due scappi la pazienza. Può capitare che si desti l’indole ferina che dorme negli angoli bui della nostra civilissima società. Com’era quel detto latino? Homo homini lupus – l’uomo all’uomo è un lupo.
Ma non è proprio così. Il razzismo in Italia è una forma mentis diffusa in tutti gli strati della società – e questo già molto prima che aumentassero gli sbarchi: uno studio
FONTE: Infodata Sole 24 Ore
dell’istituto di ricerca americano Pew Center ha recentemente rilevato che gli italiani sono il popolo di gran lunga più intollerante di tutta l’Europa Occidentale. E non è che se la piglino solo coi “neri”. No. In questo gli italiani sono equi: odiano tutti, dagli zingari, ai musulmani, agli ebrei.
Perché? A voler dare ragione ai razzisti si potrebbe dire che gli italiani in quanto popolo sono predisposti all’intolleranza e alla violenza.
Questo è un servizio sugli italiani in Germania negli anni ‘60, quando gli invasori – spesso armati, a quanto pare – eravamo noi.
Fa male il razzismo, vero?
Ma chiaramente i motivi sono altri. Uno è che sicuramente, ad oggi, quasi nessun politico, nessun rappresentante di un’istituzione italiana ha mai detto chiaramente che l’Italia è un paese di immigrazione.
In altri paesi come gli Stati Uniti, il Canada, la Germania, il Regno Unito le istituzioni sono chiamate a formulare criteri di appartenenza inclusivi – cioè a definire un “noi” che abbracci l’intera popolazione, autoctona e immigrata. In Italia questo non è stato mai fatto – nella convinzione che il nostro sia più che altro un paese di emigrazione. Insomma, nessuno ha mai detto agli italiani: mettetevi l’anima in pace. Queste persone sono qui e ci restano.
Ma ovviamente, il razzismo e la violenza xenofoba non sono solo un problema dell’Italia.
Le aggressioni razziste sono aumentate negli ultimi anni anche in altri paesi. Questo ha senza dubbio a che vedere coll’aumento dei flussi migratori. Ma non solo. Perché la violenza razzista tende ad esplodere spesso anche in luoghi e situazioni dove gli immigrati non sono poi così tanti – e, guarda un po’ – lo fa di preferenza quando partiti o movimenti anti-immigrazione hanno conseguito qualche vittoria politica importante. È accaduto nel Regno Unito nelle settimane dopo il referendum sulla Brexit. Ed è accaduto negli Stati Uniti all’indomani della vittoria di Donald Trump alle presidenziali.
E perché? La parola chiave, dicono i sociologi, è legittimazione. Quando un partito o un movimento politico con una chiara agenda xenofoba consegue una vittoria è come se fosse squillata l’adunata per tutti coloro che – per timore di ritorsioni – fino a quel momento si erano limitati alle chiacchiere da bar. O in rete. E’ il richiamo della foresta che sveglia il lupo.
Perché il razzismo, ahimé, è sempre lì, accucciato in un angolo come una bestia da preda. Ma con una differenza.
Dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz nel 1945 la politica europea – di destra e di sinistra, di qua e di là dal Muro – sembrava essersi messa d’accordo almeno su una cosa: il razzismo va trattato come un abominio, un mostro da tenere alla catena. Guai a farlo vedere in pubblico. E in effetti per mezzo secolo l’idea ha retto.
Finché, dopo il crollo del Muro di Berlino, il mostro si è liberato dalle sue catene ed è uscito allo scoperto. E ha aggredito e contagiato parti sempre più ampie del mondo politico.
Certo è un mostro diverso – meno impregnato di romanticismo ottocentesco come quel Gobineau che scriveva dell’ineguaglianza delle razze e più vicino alla realtà di oggi. Meno uomo lupo della letteratura gotica e più Teen Wolf.
Infatti i razzisti di oggi non parlano generalmente nemmeno di razza. Parlano di cultura, religione, civiltà. Persino un terrorista fanatico come Breivik nel suo manifesto la parola razza la usa poco e solo di sfuggita. E’ il razzismo senza razze di cui parlava il filosofo tedesco Theodor Adorno già negli anni ‘70.
E i razzisti di oggi – tranne alcune eccezioni – non fantasticano più nemmeno di una razza sovrana. No. Dicono di essere etnopluralisti – che vuol dire che amano tutte le razze, purché se ne stiano a casa loro.
E’ un razzismo dal volto sorridente e rassicurante. Un razzismo per tutti.
Ma dietro il sorriso si celano zanne feroci.
C’è un altro uomo vestito di nero. Ha un giubbotto antiproiettile e mezzi guanti. E’ alla guida di un’auto scura. Nell’abitacolo penzola un Arbre Magique al limone. Dall’autoradio escono le note di una specie di mazurca – quasi non si direbbe che è un inno allo sterminio dei musulmani.
E sul sedile del passeggero ci sono vari fucili d’assalto istoriati con nomi di persone e di luoghi. L’auto si ferma in un vicolo. L’uomo scende. Senza dire una parola prende un altro fucile dal bagagliaio. Cammina a passo spedito fino all’ingresso di una moschea. Prima ancora di varcare la soglia alza il fucile e comincia a sparare.
L’attentato di Christchurch in Nuova Zelanda nel marzo 2019 ha il sapore di un déja-vu. E non solo perché, come Anders Behring Breivik e Luca Traini, l’attentatore, Brenton Tarrant, è un uomo bianco sui trent’anni senza alcun precedente penale o affiliazione politica – un insospettabile.
E’ un déja-vu perché Tarrant vuole che sia un déja-vu. L’intera operazione dal video a i nomi sui fucili, alla musica è concepita per farci pensare che questa strage non è un atto isolato, non è un colpo di testa ma parte di uno schema più grande.
E nel Manifesto, che, naturalmente, Tarrant ha pubblicato online prima di partire per il suo raid stragista ci sono espliciti riferimenti ad altri Cavalieri – dice proprio così, richiamando il suo modello di riferimento, Breivik:
“Io sostengo tutti coloro che prendono posizione contro il genocidio etnico e culturale. Luca Traini, Anders Breivik, Dylann Roof, Anton Lundin Petterson, Darren Osbourne eccetera”
E chi sono queste persone? Di Breivik e Traini abbiamo già detto.
Dylann Roof è il 21enne che, nel 2015, è entrato armato di mitragliatore in una chiesa di Charleston in Sud Carolina e ha massacrato tre uomini e sei donne di colore di età compresa tra i 26 e gli 87 anni. Anton Lundin Pettersson è un altro 21enne che, sempre nel 2015, ha sventrato a colpi di spada due insegnanti e un bambino di 12 anni – tutti di origini straniere – in una scuola di Trollhättan in Svezia. Anche Pettersson aveva firmato un manifesto in cui diceva di voler agire contro l’immigrazione incontrollata. Darren Osbourne è il 47enne che ha lanciato la sua auto contro un gruppo di persone davanti a una moschea di Londra uccidendo un uomo. Quando è sceso dall’auto, Osborne ha gridato: “ucciderò tutti i musulmani! Ho fatto la mia parte”. Stava per essere linciato quando è stato portato in salvo – dall’imam della moschea che aveva attaccato.
Eccetera, scrive Tarrant. Appunto. Eccetera. Perché la lista è lunga.
C’è il neonazista tedesco che nel giugno 2019 ha sparato in testa al Presidente del Distretto di Kassel perché questi difendeva la politica migratoria di Angela Merkel. Otto mesi prima un camionista di 46 anni ha aperto il fuoco in una sinagoga di Pittsburgh negli Stati Uniti, uccidendo 11 persone, tra cui una donna di 97 anni. Poi c’è il 20enne che, nell’agosto 2017, ha investito deliberatamente colla sua auto i partecipanti a una manifestazione antirazzista a Charlottesville in Virginia, uccidendo una donna. E ancora lo studente canadese che, sempre nel 2017, ha fatto irruzione in una moschea di Quebec City sparando sulle persone in preghiera, massacrandone sei. Stesso anno: un ex soldato a New York uccide a colpi di spada un senzatetto di colore per – dice – scatenare una guerra tra razze. E poi c’è il 18enne tedesco che, a Monaco, nel 2016, ha ucciso nove persone (tutte con un retroterra di migrazione) a colpi di pistola – la più giovane delle vittime era una ragazza di 14 anni. E il giardiniere di 45 anni che ha sparato addosso e poi accoltellato la deputata laburista inglese Jo Cox in nome della “razza bianca”.
E questo solo negli ultimi tre anni, senza contare le centinaia di attentati di piccolo calibro. Solo in Germania dal 2015 ci sono stati più di 400 attacchi violenti contro rifugiati e centri di accoglienza di cui 24 attentati incendiari con quasi 100 feriti.
Dico “attentati”, anche se molta gente fatica a chiamarli così. Anche nel caso di quello che è successo a Christchurch o a Macerata.
Sparatorie, stragi, gesti folli. Sono azioni individuali, partorite nella mente di sociopatici, disadattati, matti – lupi solitari.
Eppure questi lupi così solitari leggono gli stessi libri, si trovano negli stessi forum, in alcuni casi si scambiano messaggi e si riconoscono nelle stesse parole d’ordine. Roof, Osbourne, l’assassino di New York e il soldato tedesco dicono tutti che il loro obiettivo è una “Guerra tra razze”. Coincidenza?
C’è voluto che Tarrant lo scrivesse a chiare lettere nel suo Manifesto perché i giornali si rendessero conto che i lupi solitari hanno formato un branco.
E forse a questo punto sarebbe il caso di chiamarli col loro nome: terroristi.
Ma c’è chi non è d’accordo.
Questo – lo avrete riconosciuto – è ancora l’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini, che, interrogato sui fatti di Christchurch dice che l’unico terrorismo di cui bisogna occuparsi è quello islamico. Lo dicono i servizi di informazione e sicurezza.
Strano, perché, a quanto dicono quasi tutti gli esperti di sicurezza e terrorismo al mondo, a livello globale gli attentati di matrice islamica sono in forte calo – soprattutto a causa del collasso dello Stato Islamico
FONTE: Washington Post
Anche considerando il grande attentato terroristico avvenuto in una chiesa di Colombo in Sri Lanka a Pasqua del 2019 il numero di attacchi effettuati da gruppi islamici radicali si è più che dimezzato negli ultimi anni.
E invece aumentano le vittime del terrorismo di destra: negli Stati Uniti nel triennio 2015-2018 solo un quarto degli attacchi estremistici è stato di matrice islamista. Più del 70 per cento sono invece riconducibili all’estrema destra
FONTE: The Atlas
FONTE: SPLCENTER
E gli esperti dicono anche un’altra cosa: terrorismo di destra e terrorismo islamista appaiono oggi sempre più come due facce della stessa medaglia
FONTE: ABC
Prima – ai tempi di Al-Qaeda per capirci – i terrorismi islamisti erano organizzati, addestrati, ben armati e puntavano ad azioni di guerriglia con molti partecipanti e un impatto devastante.
Lo Stato Islamico ha invece progressivamente sposato l’ideologia della “Resistenza senza leader”, cioè ogni combattente nel mondo può colpire in qualsiasi momento, senza contattare nessuno – e così ridurre il rischio di essere scoperto
FONTE: Die Zeit
Da dove viene questa idea? Dai manuali di strategia del Terzo Reich, che, alla fine della guerra, quando tutto ormai era perduto, incitava ad azioni terroristiche isolate da parte di “Werwölfe” – che vuol dire, guarda un po’, lupi mannari
FONTE: LINK
Poi c’è il modus operandi: Breivik nel suo Manifesto si richiama esplicitamente all’esempio di Al Qaeda. Usare un veicolo per fare strage di passanti è la strategia usata da sedicenti membri dello Stato Islamico a Berlino, Londra, Nizza e Barcellona – ma anche da Osborne e dagli attentatori di Charlottesville e Bottrop. E l’idea di una telecamera fissata a un casco per riprendere la strage usata da Tarrant? E’ presa dal terrorista islamista che ha fatto una strage in una scuola ebraica di Tolosa nel 2012. E anche le loro ideologie si assomigliano: lo Stato Islamico incoraggia azioni terroristiche per provocare una guerra tra credenti e non-credenti. Osborne, Roof e gli altri non potrebbero essere più d’accordo.
E c’è un’altra, più inquietante somiglianza
FONTE: Link
Dall’analisi dei profili dei lupi solitari degli ultimi anni – siano essi islamisti, razzisti o qualcos-isti – emerge chiaramente che il loro percorso di radicalizzazione è – in generale – estremamente breve. In alcuni casi – vedi Osborne e i terroristi islamici che hanno colpito a Nizza e nella città tedesca di Würzburg nel 2016 – si parla di pochi mesi. E avviene soprattutto in rete: prima attraverso social media, poi attraverso forum di gruppi radicali. Per questo non si può parlare realmente di affiliazione, politica o religiosa. Non sono gli islamisti di una volta che andavano per mesi nei campi d’addestramento in Pakistan o i terroristi (neri o rossi) degli anni ‘70 colle loro strutture paramilitari.
Sono come noi. Finché non scatta qualcosa e, all’improvviso, ecco il lupo.
Per questo è anche difficile appiccicare loro un’etichetta.
Neonazista, suprematista, estremista di destra: così la stampa internazionale ha chiamato Brenton Tarrant, il terrorista di Christchurch. Ma è lo stesso Tarrant a prendersi gioco di queste etichette. Lo scrive nel suo Manifesto – costruito come un’intervista immaginaria con uno di questi giornalisti che oggi faticano a decifrarlo:
“Sei un nazista? No, i nazisti non esistono. Sei di destra? A seconda delle definizioni, sì. Sei di sinistra? A seconda delle definizioni, sì. Sei un fascista? Sì. Chiunque venga chiamato fascista è un fascista. Sono sicuro che i giornalisti ameranno questo tipo di cose”.
FONTE: Die Zeit
“Sei un razzista?” si chiede ancora Tarrant. “Sì, per definizione”. Forse è proprio questo il punto. C’è un terrorismo globale di matrice razzista. Ecco, ma allora perché non esiste al mondo una commissione di inchiesta, una task-force o anche solo un’unità speciale contro questa minaccia?
Onestamente non me lo spiegare. Però ho un’ipotesi: perché ammettere che esiste un terrorismo razzista equivale ad ammettere che siamo tutti parte di un grande piano terroristico. Perché, se vogliamo essere onesti, siamo tutti impregnati di paure e pregiudizi. Tutti almeno una volta ce la siamo presa coi magrebini che spacciano al parchetto o con un mendicante rom – o magari abbiamo cambiato strada quando abbiamo visto venirci incontro un ragazzo di colore di notte in una strada isolata.
Tutti avvertiamo la presenza di questa bestia intollerante e feroce. Perché la bestia è sempre lì. Però è importante sapere che esiste e che può far male. Anzi è questo l’unico modo per tenerla alla catena.
Perché il razzismo fa male anche quando è inconscio.
Una storia mi ha colpito particolarmente mentre facevo le mie ricerche sull’attentato di Utoya. La racconta un ragazzo, un testimone che è sopravvissuto alla strage.
La notizia che c’era qualcuno che sparava ai ragazzi del meeting si è sparsa velocemente sull’isola. Tutti hanno cominciato a scappare. Il ragazzo ricorda che c’era una ragazza accanto a lui con un paio di pantaloni sportivi grigi. A un certo punto hanno visto Breivik uscire in una radura. Aveva un giubbotto antiproiettile e imbracciava un fucile d’assalto. E la ragazza coi pantaloni grigi, invece di scappare, si è voltata e gli è andata incontro. Per qualche motivo l’uomo armato le infondeva sicurezza.
Breivik ha alzato il fucile e l’ha uccisa.
Ecco. Ho pensato una cosa: se fosse stato un uomo di aspetto mediorientale con una lunga barba nera la ragazza forse sarebbe scappata e sarebbe ancora viva.
Il razzismo uccide – soprattutto quando ci dimentichiamo che esiste.