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L’uomo nero, Ep. 7

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Non sappiamo chi sia. Non sappiamo da dove venga. Non sappiamo che cosa voglia. Sappiamo solo che ci fa paura.

Qui si parla di immigrazione e criminalità.

Scritto da: Fabio Ghelli
Prodotto da: Federico Bogazzi e Fabio Ghelli

Musiche:

  • Hobocombo (www.hobocombo.bandcamp.com)
  • Himmelsrandt (www.himmelsrandt.com)

Canzone finale: L’Odio di Giromini Redelnoir

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Testi

L’uomo lupo, i testi della sesta puntata

La fine di luglio del 2011 era stata piovosa a Oslo – una di quelle estati nordiche in cui ogni raggio di sole è un’amara consolazione. Forse per questo qualcuno ha pensato a un tuono quando, verso le tre di pomeriggio del 22 luglio, un boato ha scosso la città.

Invece era un furgone bianco caricato con quasi una tonnellata di fertilizzante esplosivo parcheggiato tra il palazzo del governo e il Ministero del Petrolio e dell’Economia. Otto persone sono morte nell’esplosione.

Polizia, pronto intervento e pompieri sono subito sul posto. I feriti vengono portati in ospedale, l’intero quartiere amministrativo viene fatto evacuare. A quanto pare ci sono altri ordigni sparsi per la città. Nessuno conosce il movente dell’attentato. Si parla di islamisti. La televisione invita tutti a restare in casa.

Circa due ore più tardi un uomo in uniforme si presenta all’imbarcadero di un traghetto a 35 chilometri della città. Al traghettatore dice di essere un poliziotto e di dover andare sulla vicina isola di Utoya per interrogare alcune persone in merito all’attentato. Sull’isola si sta svolgendo l’annuale meeting dei giovani del Partito Laburista Norvegese. L’uomo ha con sé diversi armi automatiche – niente di strano, pensa il traghettatore, visto lo stato di emergenza.

Arrivato sull’isola, l’uomo sale verso il campeggio dove sono radunati i partecipanti al meeting. Non appena vede i primi ragazzi, imbraccia il fucile.

Verso le cinque e mezzo l’uomo chiama la polizia dall’isola. Dice di chiamarsi Anders Behring Breivik e di essere un ufficiale del movimento di resistenza norvegese. “Ho compiuto la mia missione. Venitemi a prendere”, dice.

Intorno a lui ci sono i cadaveri di 77 ragazzi e ragazze.

Fonti: BBC e The Guardian

L’attentato di Oslo è il più sanguinoso attentato terroristico mai avvenuto in Norvegia e uno dei più efferati in Europa.

E perché? Che cosa ha spinto un 32enne taciturno e introverso che abitava ancora coi genitori a compiere una simile carneficina?

I motivi sono tutti contenuti in un Manifesto che Breivik ha pubblicato online poco prima di dare inizio all’attacco e che si chiama: “2083 – una dichiarazione di indipendenza europea”.

Sono più di 1.500 pagine. Una lettura pesante. Ma istruttiva.

La prima metà è una specie di mostruoso pastiche di articoli cuciti insieme da pezzi di blog della nuova destra anti-Islam e anti-immigrazione. Sono tirate furibonde contro l’Islam, l’Unione Europea, gli immigrati, le élite intellettuali, i leader di governo corrotti, le femministe – insomma, il tipico catalogo di nemici della nuova destra. Il filo conduttore è uno: la società e la cultura occidentale sono sotto attacco.

Da parte di chi? Secondo Breivik si tratta di un grande complotto di ispirazione marxista per creare uno Stato Islamico europeo chiamato Eurabia – perché, come e dove si configuri questo intreccio di Capitale e Corano non è dato sapere.

A più riprese Breivik parla però di genocidio dei popoli Europei :

“Ho scritto che quello che sta avvenendo in Europa occidentale è un sanguinoso genocidio. Ed è un genocidio a cui molti nativi europei stanno attivamente partecipando”. Suona familiare?

Nella seconda parte Breivik invece lascia da parte la teoria. In più di 700 pagine spiega con assoluta meticolosità come realizzare un attentato terroristico, partendo dalle fonti di finanziamento, passando per gli armamenti, fino alla scelta degli obiettivi. E dà consigli ad altri cavalieri templari – per usare le sue parole – che volessero seguirlo sul cammino della Guerra Santa.

“Una volta che decidi di colpire è meglio uccidere tante persone che non ucciderne troppo poche o si rischia di ridurre l’impatto ideologico dell’azione. Spiega bene quello che hai fatto (in un annuncio distribuito prima dell’azione) e assicurati che tutti capiscano che noi, i popoli liberi dell’Europa, colpiremo ancora e ancora”.

Più si va avanti nella lettura, più si ha l’impressione di essere lì, nella penombra della sua stanza in casa dei suoi genitori, e di osservarlo mentre, alla luce del monitor, naviga tra un blog della nuova destra, un catalogo di armi automatiche e una community per giochi online. E’ lì che è avvenuta la trasformazione – da nerd appassionato di armi e graffiti a qualcosa di diverso, di feroce e determinato.

In controluce il torrenziale Manifesto è però più di ogni altra cosa la trama di un film – un film che ha lo stesso Breivik come protagonista.

È un filmaccio d’azione che abbiamo tutti già visto: un eroe solitario in possesso di un pericoloso segreto cerca di mettere in guardia il mondo. Una potente organizzazione dal volto bonario – ma in realtà dai perfidi intenti – cerca di metterlo a tacere. Aiutato da pochi, fedeli alleati, l’eroe passa all’azione. Ma l’élite corrotta gli mette i bastoni tra le ruote: l’eroe viene arrestato e processato. Ma prima di essere condannato l’eroe enuncia un monologo che scuote le coscienze del pubblico e innesca la rivoluzione.

E il monologo è già lì pronto, nel Manifesto: “So che la verità che io rappresento è dura da accettare in questi tempi politicamente corretti, ma la maggioranza dei liberi e patriotici europei apprenderà presto che quello che dico è la verità. Noi abbiamo il popolo dalla nostra parte. Abbiamo la verità dalla nostra parte. E abbiamo il tempo dalla nostra parte”.

L’eroe si sacrifica perché il suo messaggio viva e si diffonda.

E’ il delirio di un matto col complesso di Gesù Cristo, si potrebbe dire. Se non fosse per un piccolo particolare: almeno in un punto Anders Behring Breivik aveva ragione.

Breivik ha ragione quando dice che ha il tempo dalla sua parte. Negli ultimi otto anni, infatti, molto di quello che ha scritto nel suo manifesto – le tirate sul genocidio dei bianchi e sull’Eurabia – è passato da essere materia di discussione nei più oscuri e radicali forum dell’estrema destra a essere apertamente discusso nei parlamenti europei.

Fonte: Washington Post

Per le elezioni europee 2019 l’Alternativa per la Germania ha pubblicato manifesti elettorali su cui si vede un dipinto in cui uomini d’aspetto arabo scrutano e palpeggiano una schiava bianca. Lo slogan: perché l’Europa non diventi l’Eurabia.

Fonte: Die Welt

In Austria l’FPÖ, alleato di governo del Partito Popolare, ha costruito gran parte delle proprie campagne elettorali sulla lotta a una presunta islamizzazione dell’Europa.

E un altro politico di spicco della nuova destra populista europea, l’olandese Geert Wilders  scriveva l’anno scorso su Twitter: “La nostra popolazione viene sostituita. I nostri leader lo stanno permettendo. Ci stanno tradendo. Dobbiamo resistere contro l’islamizzazione e contro questi leader traditori. Mai più. Chiudiamo le frontiere. Abbandoniamo l’Unione Europea e recuperiamo la nostra sovranità, de-islamizziamo le nostre nazioni e facciamo il nostro dovere di patrioti!” Anche questo non sfigurerebbe nel Manifesto di Breivik.

Ma non sono solo i partiti della destra radicale. Poco dopo il massacro di Utoya, il Presidente tedesco Christian Wulff aveva detto senza mezzi termini: l’islam è parte della Germania. L’anno scorso il leader dei Cristianosociali tedeschi e Ministro dell’Interno Horst Seehoofer dice invece l’esatto contrario: l’Islam non apparterrà mai alla Germania

Ah… e poi c’è lui:.

Questo è l’attuale ministro degli Interni italiano Matteo Salvini che, insieme agli alleati Marine Le Pen del Front National e Marcus Pretzell dell’AfD annuncia un fronte comune contro il trattato transatlantico TTIP. Parla di “Santa Alleanza dei popoli europei contro un tentativo di genocidio”. Sì vabbeh, verrebbe da dire, il TTIP è un accordo commerciale – giustamente controverso. Ma che c’entra il genocidio? E la Santa Alleanza?

E vabbeh, che male c’è? Sono posizioni legittime, sottoscritte da milioni di persone – ed è giusto che vi siano politici capaci di interpretare e articolare queste ansie in un sistema democratico. Altrimenti – Breivik l’ha dimostrato – c’è il rischio che la rabbia e la frustrazione di tanti cittadini si esprimano in maniera violenta.

C’è rischio che qualcun altro metta mano alla pistola.

Il 3 febbraio 2018 Jennifer, una ragazza nigeriana da poco in Italia, è in compagnia di un’amica davanti alla stazione di Macerata. Lì per lì non si accorge di una grossa auto nera che fa lentamente il giro della rotonda. L’auto si ferma proprio davanti a lei. Dal finestrino esce una mano – armata con una pistola Glock calibro 9. Jennifer è impietrita dal terrore. La pistola è puntata direttamente verso il suo petto. L’amica capisce la situazione e tira Jennifer a terra. Parte un colpo che raggiunge la ragazza alla spalla. L’automobile parte a tutta velocità accompagnata dalle urla della ragazza

Fonte: Il Gazzettino

Poco dopo l’auto nera si ferma davanti al Monumento ai Caduti. Ne esce un uomo di 28 anni, fisico massiccio, testa rasata. Le sirene della polizia si stanno avvicinando. L’uomo sale le scale del monumento e – con compostezza rituale – si toglie la giacca e si avvolge in una bandiera italiana. Quindi, come se stesse posando per un invisibile schiera di fotografi, fa il saluto romano

FONTE: Repubblica

Sei persone sono rimaste ferite nell’attentato – due gravemente. Vengono dal Ghana, dal Mali, dalla Nigeria, dal Gambia.

Sulle motivazioni dell’attacco ci sono da subito pochi dubbi: l’attentatore, Luca Traini, è conosciuto per la sua verve xenofoba, le sue simpatie di estrema destra – e per la sua candidatura alle amministrative tra le file della Lega.

E che cosa dice il segretario del partito di Traini mentre ancora i feriti vengono trattati d’urgenza in ospedale?

VIDEO Repubblica

Il criminale è chi ha permesso l’immigrazione. Non uno che ha sparato 30 colpi addosso a persone inermi.

Beh… ma quindi nel momento in cui il partito di Traini dovesse andare al governo e questo partito mettesse un freno all’immigrazione, ovviamente, questo stato d’emergenza dovrebbe finire. E la violenza scomparire.

VIDEO TG La 7

Questo accadeva nel luglio del 2018, appena un mese dopo l’insediamento del governo di Lega e Cinque Stelle. Ma la cosa è andata avanti. In tutto il 2018 il numero di violenze fisiche a sfondo razzista è triplicato rispetto all’anno prima. Triplicato, da 46 a 126 casi – e questi sono solo i casi denunciati.

Il rapporto 2018 dell’associazione Lunaria che da anni si occupa di razzismo in Italia sembra un bollettino di guerra

FONTE: LUNARIA

C’è il 27enne del Camerun preso a bastonate a Sarno. Ci sono i ragazzi del Mali bersaglio di spari a Napoli. Ci sono i migranti feriti da armi ad aria compressa a Latina a e Forlì. Ci sono gli abitanti dei centri d’accoglienza aggrediti a Sulmona, Atena Lucana e Pescolanciano vicino a Isernia. Ci sono i due ragazzi del Niger e del Senegal assaliti da gruppi di razzisti a Rimini e Partinico. Un altro camerunense colpito da un proiettile ad Aprilia. E la bambina rom di quattro mesi presa a fucilate a Roma. E poi c’è Sacko Sumayla, il sindacalista scomodo assassinato a Rosarno – solo per citarne alcuni.

Fantasie, dicono dal partito di Traini. Non c’è nessun allarme razzismo. E intanto le violenze continuano.

FONTE: Il Messaggero

Sarebbe tuttavia sbagliato guardare all’attuale ondata di odio e intolleranza come a un’onda anomala generata da una particolare congiuntura politica. Essa è in realtà cresciuta per anni – nel disinteresse e spesso colla complicità di chi oggi grida allo scandalo.

Il razzismo in Italia è un problema molto serio. E negli ultimi anni è diventato un’autentica piaga sociale: secondo l’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell’OSCE in quattro anni i “crimini d’odio” in Italia sono aumentati di dieci volte: da 71 nel 2012 a più di 800 nel 2016 – e di questi quasi la metà aveva una motivazione razziale.

Vabbeh… Le teste calde ci sono dappertutto. E poi con tutti questi immigrati che sono arrivati negli ultimi anni… Magari in situazioni di degrado sociale – magari nelle periferie dove immigrati e italiani poveri condividono lo stesso disagio – può capitare che a un italiano o due scappi la pazienza. Può capitare che si desti l’indole ferina che dorme negli angoli bui della nostra civilissima società. Com’era quel detto latino? Homo homini lupus – l’uomo all’uomo è un lupo.

Ma non è proprio così. Il razzismo in Italia è una forma mentis diffusa in tutti gli strati della società – e questo già molto prima che aumentassero gli sbarchi: uno studio

FONTE: Infodata Sole 24 Ore

dell’istituto di ricerca americano Pew Center ha recentemente rilevato che gli italiani sono il popolo di gran lunga più intollerante di tutta l’Europa Occidentale. E non è che se la piglino solo coi “neri”. No. In questo gli italiani sono equi: odiano tutti, dagli zingari, ai musulmani, agli ebrei.

Perché? A voler dare ragione ai razzisti si potrebbe dire che gli italiani in quanto popolo sono predisposti all’intolleranza e alla violenza.

Questo è un servizio sugli italiani in Germania negli anni ‘60, quando gli invasori – spesso armati, a quanto pare – eravamo noi.

Fa male il razzismo, vero?

Ma chiaramente i motivi sono altri. Uno è che sicuramente, ad oggi, quasi nessun politico, nessun rappresentante di un’istituzione italiana ha mai detto chiaramente che l’Italia è un paese di immigrazione.

In altri paesi come gli Stati Uniti, il Canada, la Germania, il Regno Unito le istituzioni sono chiamate a formulare criteri di appartenenza inclusivi – cioè a definire un “noi” che abbracci l’intera popolazione, autoctona e immigrata. In Italia questo non è stato mai fatto – nella convinzione che il nostro sia più che altro un paese di emigrazione. Insomma, nessuno ha mai detto agli italiani: mettetevi l’anima in pace. Queste persone sono qui e ci restano.

Ma ovviamente, il razzismo e la violenza xenofoba non sono solo un problema dell’Italia.

Le aggressioni razziste sono aumentate negli ultimi anni anche in altri paesi. Questo ha senza dubbio a che vedere coll’aumento dei flussi migratori. Ma non solo. Perché la violenza razzista tende ad esplodere spesso anche in luoghi e situazioni dove gli immigrati non sono poi così tanti – e, guarda un po’ –  lo fa di preferenza quando partiti o movimenti anti-immigrazione hanno conseguito qualche vittoria politica importante. È accaduto nel Regno Unito nelle settimane dopo il referendum sulla Brexit. Ed è accaduto negli Stati Uniti all’indomani della vittoria di Donald Trump alle presidenziali.

E perché? La parola chiave, dicono i sociologi, è legittimazione. Quando un partito o un movimento politico con una chiara agenda xenofoba consegue una vittoria è come se fosse squillata l’adunata per tutti coloro che – per timore di ritorsioni – fino a quel momento si erano limitati alle chiacchiere da bar. O in rete. E’ il richiamo della foresta che sveglia il lupo.

Perché il razzismo, ahimé,  è sempre lì, accucciato in un angolo come una bestia da preda. Ma con una differenza.

Dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz nel 1945 la politica europea – di destra e di sinistra, di qua e di là dal Muro – sembrava essersi messa d’accordo almeno su una cosa: il razzismo va trattato come un abominio, un mostro da tenere alla catena. Guai a farlo vedere in pubblico. E in effetti per mezzo secolo l’idea ha retto.

Finché, dopo il crollo del Muro di Berlino, il mostro si è liberato dalle sue catene ed è uscito allo scoperto. E ha aggredito e contagiato parti sempre più ampie del mondo politico.

Certo è un mostro diverso – meno impregnato di romanticismo ottocentesco come quel Gobineau che scriveva dell’ineguaglianza delle razze e più vicino alla realtà di oggi. Meno uomo lupo della letteratura gotica e più Teen Wolf.

Infatti i razzisti di oggi non parlano generalmente nemmeno di razza. Parlano di cultura, religione, civiltà. Persino un terrorista fanatico come Breivik nel suo manifesto la parola razza la usa poco e solo di sfuggita. E’ il razzismo senza razze di cui parlava il filosofo tedesco Theodor Adorno già negli anni ‘70.

E i razzisti di oggi – tranne alcune eccezioni – non fantasticano più nemmeno di una razza sovrana. No. Dicono di essere etnopluralisti – che vuol dire che amano tutte le razze, purché se ne stiano a casa loro.

E’ un razzismo dal volto sorridente e rassicurante. Un razzismo per tutti.  

Ma dietro il sorriso si celano zanne feroci.

C’è un altro uomo vestito di nero. Ha un giubbotto antiproiettile e mezzi guanti. E’ alla guida di un’auto scura. Nell’abitacolo penzola un Arbre Magique al limone. Dall’autoradio escono le note di una specie di mazurca – quasi non si direbbe che è un inno allo sterminio dei musulmani.

E sul sedile del passeggero ci sono vari fucili d’assalto istoriati con nomi di persone e di luoghi. L’auto si ferma in un vicolo. L’uomo scende. Senza dire una parola prende un altro fucile dal bagagliaio. Cammina a passo spedito fino all’ingresso di una moschea. Prima ancora di varcare la soglia alza il fucile e comincia a sparare.

L’attentato di Christchurch in Nuova Zelanda nel marzo 2019 ha il sapore di un déja-vu. E non solo perché, come Anders Behring Breivik e Luca Traini, l’attentatore, Brenton Tarrant, è un uomo bianco sui trent’anni senza alcun precedente penale o affiliazione politica – un insospettabile.

E’ un déja-vu perché Tarrant vuole che sia un déja-vu. L’intera operazione dal video a i nomi sui fucili, alla musica è concepita per farci pensare che questa strage non è un atto isolato, non è un colpo di testa ma parte di uno schema più grande.

E nel Manifesto, che, naturalmente, Tarrant ha pubblicato online prima di partire per il suo raid stragista ci sono espliciti riferimenti ad altri Cavalieri – dice proprio così, richiamando il suo modello di riferimento, Breivik:

“Io sostengo tutti coloro che prendono posizione contro il genocidio etnico e culturale. Luca Traini, Anders Breivik, Dylann Roof, Anton Lundin Petterson, Darren Osbourne eccetera”

E chi sono queste persone? Di Breivik e Traini abbiamo già detto.

Dylann Roof è il 21enne che, nel 2015, è entrato armato di mitragliatore in una chiesa di Charleston in Sud Carolina e ha massacrato tre uomini e sei donne di colore di età compresa tra i 26 e gli 87 anni. Anton Lundin Pettersson è un altro 21enne che, sempre nel 2015, ha sventrato a colpi di spada due insegnanti e un bambino di 12 anni – tutti di origini straniere – in una scuola di Trollhättan in Svezia. Anche Pettersson aveva firmato un manifesto in cui diceva di voler agire contro l’immigrazione incontrollata. Darren Osbourne è il 47enne che ha lanciato la sua auto contro un gruppo di persone davanti a una moschea di Londra uccidendo un uomo. Quando è sceso dall’auto, Osborne ha gridato: “ucciderò tutti i musulmani! Ho fatto la mia parte”. Stava per essere linciato quando è stato portato in salvo – dall’imam della moschea che aveva attaccato.

Eccetera, scrive Tarrant. Appunto. Eccetera. Perché la lista è lunga.

C’è il neonazista tedesco che nel giugno 2019 ha sparato in testa al Presidente del Distretto di Kassel perché questi difendeva la politica migratoria di Angela Merkel. Otto mesi prima un camionista di 46 anni ha aperto il fuoco in una sinagoga di Pittsburgh negli Stati Uniti, uccidendo 11 persone, tra cui una donna di 97 anni. Poi c’è il 20enne che, nell’agosto 2017, ha investito deliberatamente colla sua auto i partecipanti a una manifestazione antirazzista a Charlottesville in Virginia, uccidendo una donna. E ancora lo studente canadese che, sempre nel 2017, ha fatto irruzione in una moschea di Quebec City sparando sulle persone in preghiera, massacrandone sei. Stesso anno: un ex soldato a New York uccide a colpi di spada un senzatetto di colore per – dice – scatenare una guerra tra razze. E poi c’è il 18enne tedesco che, a Monaco, nel 2016, ha ucciso nove persone (tutte con un retroterra di migrazione) a colpi di pistola – la più giovane delle vittime era una ragazza di 14 anni. E il giardiniere di 45 anni che ha sparato addosso e poi accoltellato la deputata laburista inglese Jo Cox in nome della “razza bianca”.

E questo solo negli ultimi tre anni, senza contare le centinaia di attentati di piccolo calibro. Solo in Germania dal 2015 ci sono stati più di 400 attacchi violenti contro rifugiati e centri di accoglienza di cui 24 attentati incendiari con quasi 100 feriti.

Dico “attentati”, anche se molta gente fatica a chiamarli così. Anche nel caso di quello che è successo a Christchurch o a Macerata.

Sparatorie, stragi, gesti folli. Sono azioni individuali, partorite nella mente di sociopatici, disadattati, matti – lupi solitari.

Eppure questi lupi così solitari leggono gli stessi libri, si trovano negli stessi forum, in alcuni casi si scambiano messaggi e si riconoscono nelle stesse parole d’ordine. Roof, Osbourne, l’assassino di New York e il soldato tedesco dicono tutti che il loro obiettivo è una “Guerra tra razze”. Coincidenza?

C’è voluto che Tarrant lo scrivesse a chiare lettere nel suo Manifesto perché i giornali si rendessero conto che i lupi solitari hanno formato un branco.

E forse a questo punto sarebbe il caso di chiamarli col loro nome: terroristi.

Ma c’è chi non è d’accordo.

VIDEO YOU MEDIA

Questo – lo avrete riconosciuto – è ancora l’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini, che, interrogato sui fatti di Christchurch dice che l’unico terrorismo di cui bisogna occuparsi è quello islamico. Lo dicono i servizi di informazione e sicurezza.

Strano, perché, a quanto dicono quasi tutti gli esperti di sicurezza e terrorismo al mondo, a livello globale gli attentati di matrice islamica sono in forte calo – soprattutto a causa del collasso dello Stato Islamico

FONTE: Washington Post

Anche considerando il grande attentato terroristico avvenuto in una chiesa di Colombo in Sri Lanka a Pasqua del 2019 il numero di attacchi effettuati da gruppi islamici radicali si è più che dimezzato negli ultimi anni.

E invece aumentano le vittime del terrorismo di destra: negli Stati Uniti nel triennio 2015-2018 solo un quarto degli attacchi estremistici è stato di matrice islamista. Più del 70 per cento sono invece riconducibili all’estrema destra

FONTE: The Atlas

FONTE: SPLCENTER

E gli esperti dicono anche un’altra cosa: terrorismo di destra e terrorismo islamista appaiono oggi sempre più come due facce della stessa medaglia

FONTE: ABC

Prima – ai tempi di Al-Qaeda per capirci – i terrorismi islamisti erano organizzati, addestrati, ben armati e puntavano ad azioni di guerriglia con molti partecipanti e un impatto devastante.

Lo Stato Islamico ha invece progressivamente sposato l’ideologia della “Resistenza senza leader”, cioè ogni combattente nel mondo può colpire in qualsiasi momento, senza contattare nessuno – e così ridurre il rischio di essere scoperto

FONTE: Die Zeit

Da dove viene questa idea? Dai manuali di strategia del Terzo Reich, che, alla fine della guerra, quando tutto ormai era perduto, incitava ad azioni terroristiche isolate da parte di “Werwölfe” – che vuol dire, guarda un po’, lupi mannari

FONTE: LINK

Poi c’è il modus operandi: Breivik nel suo Manifesto si richiama esplicitamente all’esempio di Al Qaeda. Usare un veicolo per fare strage di passanti è la strategia usata da sedicenti membri dello Stato Islamico a Berlino, Londra, Nizza e Barcellona – ma anche da Osborne e dagli attentatori di Charlottesville e Bottrop. E l’idea di una telecamera fissata a un casco per riprendere la strage usata da Tarrant? E’ presa dal terrorista islamista che ha fatto una strage in una scuola ebraica di Tolosa nel 2012. E anche le loro ideologie si assomigliano: lo Stato Islamico incoraggia azioni terroristiche per provocare una guerra tra credenti e non-credenti. Osborne, Roof e gli altri non potrebbero essere più d’accordo.

E c’è un’altra, più inquietante somiglianza

FONTE: Link

Dall’analisi dei profili dei lupi solitari degli ultimi anni – siano essi islamisti, razzisti o qualcos-isti – emerge chiaramente che il loro percorso di radicalizzazione è – in generale –  estremamente breve. In alcuni casi – vedi Osborne e i terroristi islamici che hanno colpito a Nizza e nella città tedesca di Würzburg nel 2016 – si parla di pochi mesi. E avviene soprattutto in rete: prima attraverso social media, poi attraverso forum di gruppi radicali. Per questo non si può parlare realmente di affiliazione, politica o religiosa. Non sono gli islamisti di una volta che andavano per mesi nei campi d’addestramento in Pakistan o i terroristi (neri o rossi) degli anni ‘70 colle loro strutture paramilitari.

Sono come noi. Finché non scatta qualcosa e, all’improvviso, ecco il lupo.

Per questo è anche difficile appiccicare loro un’etichetta.

Neonazista, suprematista, estremista di destra: così la stampa internazionale ha chiamato Brenton Tarrant, il terrorista di Christchurch. Ma è lo stesso Tarrant a prendersi gioco di queste etichette. Lo scrive nel suo Manifesto – costruito come un’intervista immaginaria con uno di questi giornalisti che oggi faticano a decifrarlo:

“Sei un nazista? No, i nazisti non esistono. Sei di destra? A seconda delle definizioni, sì. Sei di sinistra? A seconda delle definizioni, sì. Sei un fascista? Sì. Chiunque venga chiamato fascista è un fascista. Sono sicuro che i giornalisti ameranno questo tipo di cose”.

FONTE: Die Zeit

“Sei un razzista?” si chiede ancora Tarrant. “Sì, per definizione”. Forse è proprio questo il punto. C’è un terrorismo globale di matrice razzista. Ecco, ma allora perché non esiste al mondo una commissione di inchiesta, una task-force o anche solo un’unità speciale contro questa minaccia?

Onestamente non me lo spiegare. Però ho un’ipotesi: perché ammettere che esiste un terrorismo razzista equivale ad ammettere che siamo tutti parte di un grande piano terroristico. Perché, se vogliamo essere onesti, siamo tutti impregnati di paure e pregiudizi. Tutti almeno una volta ce la siamo presa coi magrebini che spacciano al parchetto o con un mendicante rom – o magari abbiamo cambiato strada quando abbiamo visto venirci incontro un ragazzo di colore di notte in una strada isolata.

Tutti avvertiamo la presenza di questa bestia intollerante e feroce. Perché la bestia è sempre lì.  Però è importante sapere che esiste e che può far male. Anzi è questo l’unico modo per tenerla alla catena.

Perché il razzismo fa male anche quando è inconscio.

Una storia mi ha colpito particolarmente mentre facevo le mie ricerche sull’attentato di Utoya. La racconta un ragazzo, un testimone che è sopravvissuto alla strage.

La notizia che c’era qualcuno che sparava ai ragazzi del meeting si è sparsa velocemente sull’isola. Tutti hanno cominciato a scappare. Il ragazzo ricorda che c’era una ragazza accanto a lui con un paio di pantaloni sportivi grigi. A un certo punto hanno visto Breivik uscire in una radura. Aveva un giubbotto antiproiettile e imbracciava un fucile d’assalto. E la ragazza coi pantaloni grigi, invece di scappare, si è voltata e gli è andata incontro. Per qualche motivo l’uomo armato le infondeva sicurezza.

Breivik ha alzato il fucile e l’ha uccisa.

Ecco. Ho pensato una cosa: se fosse stato un uomo di aspetto mediorientale con una lunga barba nera la ragazza forse sarebbe scappata e sarebbe ancora viva.

Il razzismo uccide – soprattutto quando ci dimentichiamo che esiste.

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L’uomo lupo, Ep. 6

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Uno dei fucili usati da Brenton Tarrant, l’attentatore di Christchurch

Il mostro è sempre lì, in attesa.

Qui si parla di lupi solitari e branchi di razzisti.

Scritto da Fabio Ghelli

Prodotto da Federico Bogazzi e Fabio Ghelli

Musiche:

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Testi

La bestia, i testi della quinta puntata

Allora, immaginate una sala conferenze di lusso: pareti rivestite di mogano con eleganti foto in bianco e nero in cornici d’argento. Un ampio tavolo – anch’esso di legno pregiato circondato da 10 poltrone in pelle. Su tre di queste poltrone siedono tre uomini. Uno di loro è reso irriconoscibile da un effetto elettronico. Dei due che gli siedono di fronte uno è più compassato – e indossa giacca e cravatta. L’altro invece ha la cravatta allentata e la camicia aperta e parla con aria di chi nella vita ha già visto tutto. E formula in poche parole un compendio di scienze politiche:

“Non serve a niente combattere una campagna elettorale sui fatti. Perché tutto si basa sulle emozioni. I due principali motori dell’essere umano quando si tratta di assimilare informazioni efficacemente sono speranze e paure. E molte di queste sono inspiegabili e spesso inconsce. Non sapevi di avere una certa paura finché non hai visto qualcosa che ha suscitato in te questa reazione. Il nostro lavoro è calare il secchio più a fondo dentro al pozzo. E capire quali sono le paure e ansie più profonde e radicate”

A parlare è Mark Turnbull, managing director di un’azienda britannica per l’analisi dei dati chiamata Cambridge Analytica.

Giornalisti della rete televisiva BBC hanno filmato Turnbull e il CEO dell’azienda Alexander Nix durante finti incontri con un potenziale cliente. Il servizio richiesto: la manipolazione di un’elezione.

E Turnbull spiega come funziona il servizio. Cambridge Analytica può ottenere informazioni personali su migliaia di potenziali elettori – e costruire una campagna che faccia leva sulle loro ansie più intime, sulle paure più profonde – paure che forse non sanno neanche di avere.

E come fanno? Grazie alle informazioni che mette a loro disposizione un’altra azienda specializzata nella gestione e analisi di dati. Ne avrete sentito parlare. Forse state usando i suoi servizi in questo momento. Si chiama Facebook.

Ma c’è di più: Turnbull e Nix promettono al cliente di poter eliminare avversari politici, magari coinvolgendoli in qualche lurido scandalo sessuale. Dicono di averlo già fatto decine di volte.

Dopo un po’ i discorsi dei due vertici di Cambridge Analytica non suonano più nemmeno inquietanti – ma più come delle scontate battute di un thriller politico.

Alla fine allo spettatore resta il dubbio: quanto c’è di vero nella cinica, amorale visione del mondo e della società che ispira l’attività di Cambridge Analytica?

Beh… A pensarci bene… Che importa. Verità e bugie – come direbbe qualcuno – sono solo fatti alternativi.

****

Ok. Facciamo un passo indietro. Ci sono due uomini di governo – in realtà sarebbero tre ma il terzo è poco più di un segnaposto. I due sono impegnati in una strenua lotta per l’egemonia – una lotta che divide la popolazione e rischia di spaccare lo Stato. Uno è un po’ più anziano e molto rispettato, soprattutto in ambienti militari. L’altro è giovane ma è un abile stratega e può contare su alcune amicizie importanti.

A un certo punto succede che il più anziano dei due sia in missione. Il giovane coglie la palla al balzo e si presenta in Senato con uno scoop sensazionale: un documento che dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che il suo rivale è in combutta con una minacciosa potenza orientale per assumere il potere.

Il documento fa leva sui pregiudizi in voga contro gli stranieri – soprattutto orientali – considerati una minaccia per i valori e la stabilità dello Stato. Per corroborare i sospetti, il giovane politico mette in giro vari brevi messaggi – 140 caratteri o meno – che dipingono il suo avversario come immorale e corrotto. Anche per questo la notizia si diffonde in maniera virale. E scatena l’indignazione del mondo politico e la furia della popolazione, che chiede immediate conseguenze.

Il diretto interessato viene a conoscenza dell scandalo con molto ritardo, ma è troppo tardi. Il Senato lo dichiara decaduto dalla carica. A lui non resta che fuggire.

Si arriva allo scontro e il giovane stratega ne esce vittorioso. Al veterano non resta che il suicidio.

Ora sappiamo che quel documento che ha scatenato la caccia all’uomo era probabilmente un falso, una fake news – e pure fatta abbastanza male. Ma era un falso ben congegnato, capace di provocare reazioni forti: ira e indignazione.

E di cambiare la Storia del Mondo Occidentale. Perché quel documento risale più di 2000 anni fa e riguardava un certo Marco Antonio. L’autore? Cesare Ottaviano, che poi, col nome Augusto, sarebbe diventato il primo imperatore di Roma. (https://theconversation.com/the-fake-news-that-sealed-the-fate-of-antony-and-cleopatra-71287)

Le fake news sono vecchie quanto la politica. Sin dall’antichità raccontare fregnacce è un ottimo modo per liberarsi di un avversario o di un intero gruppo etnico o religioso. Ricordo che a scuola mi arrabbiai moltissimo per la storia di Alcibiade – giovane e brillante generale ateniese, amico di Socrate, che ad un certo punto viene accusato d’aver mutilato delle statue del dio Ermes. Tutto falso. Ma Alcibiade viene condannato a morte ed è costretto a fuggire.  

E che dire del povero Nerone, passato alla storia come l’imperatore folle che suona la cetra mentre Roma brucia – una storia che, coincidentalmente, è stata scritta proprio da quelli che lo hanno costretto al suicidio.

Per non parlare di tutte le campagne denigratorie ai danni di popolazioni, gruppi o minoranze religiose: i cristiani cannibali ai tempi dell’Impero Romano, i saraceni sodomiti, gli zingari rapitori di bambini. E, naturalmente, la caterva di fregnacce che ha circondato nei millenni quegli ammazza-bambini, propagatori di pestilenze e occulti complottari degli Ebrei.

Nei secoli i sistemi si raffinano. Le strategie diventano più complesse. E soprattutto ci sono più mezzi per raccontare e far circolare storie: libri, giornali, poi radio, TV.

Già durante la Prima Guerra Mondiale inglesi e tedeschi facevano a gara a chi riusciva a piazzare più fake news nei giornali: gli inglesi dicendo che i tedeschi facevano il sapone colle persone, i tedeschi invocando complotti giudaico-bolscevichi. E questo ancora prima che Joseph Göbbels creasse il famigerato ministero della Propaganda.

Ma a quanto pare sono i russi ad aver promosso le fake news a una vera forma d’arte. E questo molto prima di internet, delle campagne virali e degli hacker.

All’inizio degli anni ‘20 del XX secolo il GUP, il servizio segreto che sarebbe poi diventato il KGB, inaugura l’ufficio per la disinformazione. Questo ufficio produce una svolta decisiva nella storia dei servizi di intelligence: Fino a questo punto infatti le calunnie, i falsi, le fake news servivano sostanzialmente a due scopi – farsi belli o gettare fango addosso al nemico.

L’ufficio per la disinformazione fa un’altra cosa: confeziona e mette in giro informazioni false – non necessariamente positive o negative – ma plausibili. In questo modo crea una cortina di fumo in cui diventa difficile distinguere tra vero e falso. Una delle prime operazioni dell’ufficio è piazzare in vari giornali stranieri la notizia che vi sia un movimento di resistenza contro i bolscevichi – e che questo movimento sia prossimo alla vittoria. Alcuni dissidenti in esilio all’estero leggono la notizia e tornano in Russia per sostenere la resistenza. E così vengono arrestati e ammazzati. LINK

Ma è durante la Guerra Fredda che la disinformazione diventa un asset strategico fondamentale.

Gli esempi si sprecano. Avete presente per dire la storia che il virus dell’AIDS era stato creato in un laboratorio militare? L’ha creata il KGB nel 1983. E l’ha pure ammesso – qualche anno più tardi. Ma la bufala era così ben fatta che ogni tanto continua a fare capolino in qualche sito complottaro. LINK

Ma non sono solo i russi eh.

Fin dagli anni ‘60 la CIA, il servizio segreto statunitense, mantiene contatti con centinaia di giornalisti sparsi in tutto il mondo che hanno il compito di diffondere notizie e informazioni preparate dall’agenzia – come ha confermato una commissione governativa nel 1977.

A volte si limitano alle classiche campagne denigratorie – come in Iran negli anni ‘50 o nel Cile di Allende. A volte fanno cose più creative – come quando, per screditare il nuovo Presidente democraticamente eletto in Indonesia Sukarno, l’agenzia decise di realizzare un film porno con un attore che somigliava al Presidente. Il progetto fu annullato – perché, contrariamemente a quanto speravano gli agenti a Stelle e Strisce, i “rumours” intorno al film invece di generare scandalo avevano infatti fatto crescere la popolarità del presidente.  LINK

Insomma: la storia è piena di bugie – bugie colle gambe lunghe, lunghissime.

Ma forse il punto di svolta più importante per capire come siamo arrivati a oggi – a Cambridge Analytica, agli hacker e alle campagne di disinformazione online è l’agosto del 2008.

Mentre le redazioni di giornali e TV sonnecchiavano nella calura agostana, una notizia piombò come una bomba tra statistiche sulle temperature e foto di vip in vacanza: la Russia ha invaso la Georgia.

Come, perché, per colpa di chi è tutt’ora oggetto di dibattito. Un po’ come nel caso della guerra in Ucraina è difficile formarsi un’opinione: il governo georgiano dice che le milizie separatiste in Ossezia e Abkhazia avevano compiuto una serie di raid provocatori – e manda l’esercito. I separatisti a loro volta accusano l’esercito georgiano di aver effettuato dei veri e propri pogrom. E chiamano in soccorso Mosca.

Com’è, come non è, la guerra dura appena pochi giorni. Ma i suoi effetti sono destinati ad avere ripercussioni molto più durature.

Perché la guerra russo-georgiana è la prima guerra combattuta su un nuovo campo di battaglia: internet. Da un lato è la prima volta che hacker di entrambe le parti si sfidano a mettere fuori uso i siti della parte avversa.

Dall’altro il conflitto diventa un braccio di ferro mediatico: entrambe le parti iniziano una campagna internazionale per far vedere al mondo quanto cattivo è il nemico. Mentre la propaganda filo-russa funziona di fatto solo in Russia, i georgiani riescono a tirare dalla loro parte quasi tutti i media internazionali.

I russi riconoscono il loro problema di immagine. E cominciano a pensare a una soluzione.

“La guerra dei cinque giorni ci ha dimostrato che la rete è un fronte come i media tradizionali, ed è un fronte che reagisce molto più rapidamente e su una scala molto più ampia. L’agosto 2008 è l’inizio dell’era dei conflitti virtuali e il momento in cui ci siamo resi conto che bisogna combattere anche sul fronte dell’informazione”. Fonte: LINK

Queste parole sono state pronunciate da quello che – secondo alcuni – era all’epoca il secondo uomo più potente in Russia dopo Vladimir Putin: il vice-capo di gabinetto Vladislav Surkov.

Surkov è una delle figure più affascinanti della Storia russa contemporanea. Comincia la sua carriera come agente pubblicitario, poi passa alla televisione per approdare poi in politica. In tutte queste varie tappe c’è una costante: Surkov, che da ragazzo ha studiato regia teatrale, vede i pezzi della macchina pubblica – politici, imprenditori, media – come attori di una grande pièce.

Tutto sta a dare loro una buona sceneggiatura.

E la pièce ha anche un nome. Surkov la chiama “Democrazia sovrana”. In pratica significa che lo Stato controlla tutti gli aspetti della vita pubblica allo scopo di raggiungere – per dirla coll’autore – benessere materiale, libertà e giustizia per tutti, ma senza impelagarsi in inutili schermaglie politiche.

Il pragmatismo come unica ideologia.

Ora, qualcuno si chiederà… capisco la sovranità, ma dov’è la democrazia? Dove è che il popolo decide se fare A o fare anzi B? Beh… la democrazia per Surkov è la pièce – è il teatro. Cioè: la popolazione deve avere l’impressione di far parte di un grande teatro democratico in cui è giusto e sensato accapigliarsi. Poi alla fine decide lo Stato sovrano. Ci siamo?

Durante i suoi anni come braccio destro di Putin, Surkov ha finanziato decine – forse centinaia – di partiti, ONG, gruppi giovanili – tutti di orientamento diversissimo, di destra, di sinistra, nazionalisti, europeisti, alcuni pro Putin, altri ferocemente anti-Putin.

Perché, come ogni teatrante ben sa, un buon dramma ha bisogno di buoni conflitti.

Ma il vero colpo di genio di Surkov non è tanto aver creato questo sistema, quanto averlo reso pubblico.

C’è una foto scattata alcuni anni fa da un blogger liberale russo nello studio di Surkov. Nella foto si vedono due vecchi telefoni a tastiera che sembrano usciti da un film di spionaggio degli anni ‘70. Sui telefoni si leggono chiaramente i nomi di tutti i leader politici dell’opposizione. E’ la prova che Surkov ha tutti in tasca. Ma poi – colpo di scena – si scopre che il blogger era a libro paga di Surkov. E le foto le ha di fatto “leakate” lui stesso. E da chi lo sappiamo? Dallo stesso Surkov.

E’ un capolavoro di quella che i critici della letteratura chiamano “mise en abyme”: un abisso consecutivo di finzioni in cui uno finisce per perdersi, come in un labirinto di specchi.

E giusto perché non si dica che ce l’ho coi russi: la guerra dell’informazione – o della disinformazione – occupa in questi anni anche i servizi statunitensi. In un manuale della Scuola Ufficiali dell’Esercito americano del 2006 si legge: “La guerra di informazioni intende influenzare il comportamento degli obiettivi – inteso come noi, le persone – siano essi amministratori o pubblico generale. […] In questo non si differenzia da altre forme di esercizio del potere, siano esse diplomatiche, militari o economiche”.

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Anzi, se vogliamo la Russia di Putin cerca solo di recuperare terreno.

Uno degli strumenti di propaganda più potenti in mano ai servizi statunitensi negli anni della Guerra Fredda erano stazioni radio internazionali come “Radio Free Europe”, “Radio Free Asia” e “Voice of America” che trasmettevano in territorio sovietico – e, aiutati dalle suadenti note di Elvis o dei Beatles, facevano breccia nella rigorosa educazione socialista. E contribuivano così al crollo del blocco comunista.

I tempi cambiano. E il rock è morto. Ma l’idea è viva: i contenuti giusti piazzati nelle orecchie giuste possono far crollare gli imperi.

Una delle prime iniziative che il Cremlino assume dopo la guerra colla Georgia è potenziare un piccolo network televisivo pubblico che, fino a quel momento, diffondeva notizie sulla Russia in lingua inglese – Russia Today. Dopo un processo di rebranding il network – adesso chiamato semplicemente RT – cambia strategia: spuntano redazioni in francese, tedesco, spagnolo e arabo.

E anche i contenuti cambiano. RT non parla più solo di Russia, ma di Europa e Stati Uniti. E lo fa soprattutto mettendo in luce situazioni critiche e problemi sociali – anche a costo di inventarseli: in pochi anni RT diventa il canale di comunicazione preferito da teorici del complotto americani come il giornalista radiofonico Alex Jones. Lo scopo è chiaro – come ha scritto una ex-collaboratrice del network: RT vuole dipingere l’inevitabile crollo della società liberale e capitalista occidentale.  LINK

Dietro il successo di RT c’è una giornalista di origini armene, Margarita Simonyan. Quando era alle superiori Simonyan ha trascorso un anno negli Stati Uniti. Ed è rimasta affascinata dal tono e dal ritmo dell’informazione di reti come CNN e CBS. Da lì viene l’idea di una rete d’informazione vivace e dinamica. E anche se all’inizio mancava di competenza e rigore giornalistico, RT riesce in breve a entrare tra i grandi player internazionali – e ad attrarre vere celebrità come il veterano della CNN Larry King e il fondatore di Wikileaks Julian Assange.

Ma non c’è da sbagliarsi: la missione di RT non è fare ascolti. Lo spiega bene la stessa Simonyan in un’intervista ad un quotidiano russo: “Ora non stiamo combattendo. Ma nel 2008 stavamo combattendo. Il Ministero della Difesa combatteva in Georgia ma noi combattevamo la guerra dell’informazione – e combattevamo contro tutto il mondo occidentale. Dobbiamo essere pronti per la guerra”. LINK

RT combatte una guerra. E presto riceve rinforzi. Dalla fusione dell’agenzia RIA Novosti con la vecchia Radio Mosca nasce nel 2012 un altro canale che Simonyan battezza Sputnik – perché il famoso satellite, dice, è una delle poche cose positive della Russia che si conoscono anche in Occidente. E Sputnik ha contenuti video e online in 30 lingue. Tra cui l’italiano.

Ora, nessuno sa di preciso quante persone seguono RT e Sputnik in TV. Ma in realtà importa poco, perché i loro video trovano presto un’altra piattaforma: Internet e i social network.

Qui si parla di miliardi di click. E come funziona la strategia del network? Semplice: ci sono articoli “esca” – cose leggere e curiose che vanno dai pezzi di gossip a quelli di costume, capaci di attrarre e solleticare l’interesse del lettore – per poi deviare l’attenzione verso altri articoli.

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Come ad esempio l’articolo che nel gennaio 2016 parla del sequestro e stupro di una ragazzina di 13 anni di origine russa da parte di tre uomini di aspetto arabo a Berlino.

La storia – dice subito la polizia berlinese – è inventat. Ma RT la rilancia online lo stesso e in poche ore la notizia è diventata virale.

E questo è solo il primo livello.

Mentre intorno alla casa della ragazzina si forma un capannello di russo-tedeschi, un portavoce della polizia cerca di tranquillizzare gli animi e ribadisce che la storia è falsa. A questo punto RT usa il video del portavoce per fare un nuovo lancio: la polizia tedesca copre lo stupro di una bambina. E perché. Per difendere la politica migratoria di Angela Merkel. È una bomba. Centinaia di persone si riversano in strada e anche il ministro degli Esteri russo Lavrov in visita a Berlino dice che – se confermata – la notizia sarebbe di una gravità estrema.

Gli specialisti della guerra dell’informazione stanno pero solo scaldando i muscoli.

Mentre divampa lo scandalo del finto stupro a Berlino un esercito di hacker è al lavoro per raccogliere centinaia di E-Mail – l’obiettivo è la candidata democratica alle presidenziali americane Hillary Clinton.

Sappiamo com’è andata: le e-mail private di Clinton finiscono in mano a Wikileaks che – anche attraverso RT – le diffonde, insieme alla notizia che la candidata democratica avrebbe compiuto flagranti abusi d’ufficio. Nessuna delle accuse si concretizza ma tanto basta…

AUDIO Trump
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Questo è l’attuale presidente americano Donald Trump che, durante la campagna elettorale del 2016, dice chiaramente: “Se la Russia o la Cina hanno quelle e-mail, sarò onesto. Io le voglio vedere”.

E’ singolare che Trump abbia festeggiato l’esito dell’inchiesta della commissione Mueller perché questa non ha trovato nessuna prova di una collusione diretta con agenti russi.

Nessuno – nemmeno nel team di Trump – ha mai infatti messo in discussione il fatto che ci sia stata una massiccia ingerenza di Mosca nelle elezioni. E che il Cremlino abbia di fatto favorito la vittoria del suo candidato preferito. E nessuno sembra preoccuparsi del fatto che questo – come ha scritto il Direttore dell’Intelligence americana all’inizio del 2017 – possa diventare un modello per future elezioni in altri paesi alleati.

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Ora… Posso quasi sentire alcune persone di mia conoscenza dire: eh bravo! Facile prendersela coi russi cattivi eh! Perché non parliamo dei droni americani in Pakistan? Perché non parliamo delle armi tedesche in Arabia Saudita? O degli interessi francesi in Libia? Ah, i media non ne parlano… Che strano…

Come confermerà qualunque giornalista degno di questo nome, l’idea che i media possano essere obiettivi e imparziali è pura fantasia. Non dico che in Europa o negli Stati Uniti non vi siano tentativi di manipolare l’opinione pubblica. Dico solo che – fedeli al canovaccio del caro Surkov – la Russia fa di tutto per far sapere al mondo quanto potente è la sua macchina di disinformazione.

Molti avranno sicuramente sentito parlare dell’Internet Research Agency o “Fabbrica dei Troll” di Olgino, vicino a San Pietroburgo. Da una centrale operativa grande come un centro commerciale, l’agenzia gestisce quasi 4.000 account di twitter e un numero imprecisato di profili facebook, postando messaggi in russo, francese, inglese, tedesco. Quando la CIA ha diffuso i dati sull’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016, Twitter e Facebook hanno trovato rispettivamente più di 9 milioni di tweet e 31 milioni di post su Facebook prodotti dalla “Fabbrica”.

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https://www.io-archive.org/#/

Ma nonostante questo, nonostante i dossier investigativi e le interviste coi troll uscite su vari quotidiani la “Fabbrica” è sempre lì – e continua a pompare messaggi in rete come una vera fabbrica pompa vapori tossici nell’atmosfera. Anzi, ho l’impressione che più se ne parla, più questo altoforno alimentato da razzismo, populismo e autoritarismo avvampa e ruggisce.

Non si sa quale influenza abbiano i troll di Olgino sulla politica internazionale. Secondo alcuni sono una banda di disperati con un uso rudimentale del traduttore di Google. Secondo i servizi americani sono una seria minaccia per la democrazia.

La verità sta probabilmente nel mezzo. Ma l’aspetto più inquietante dei troll di Olgino non sono le loro macchinazioni – no, la cosa spaventosa è quanto è facile creare una fabbrica dei troll – basta un portatile e un accesso alla rete.

Per sapere quanto facile basta andare un po’ più a Sud, parecchio più a Sud, fino a Veles, in Macedonia.

Veles è una cittadina di 50.000 anime collocata tra colline verdeggianti. Intorno alla città ci sono i resti della zona industriale abbandonata dopo il crollo della Yugoslavia. Più della metà delle popolazione è disoccupata.

A un certo punto però in città cominciano ad apparire grosse macchine tedesche. E chi le guida? Qualche investitore straniero? Un capomafia? No, le guidano ragazzetti poco più che maggiorenni che hanno appena scoperto una miniera d’oro. Una miniera chiamata fake news.

E’ successo che alcuni appassionati di computer e videogiochi in paese hanno lanciato un sito di consigli per la salute in inglese – consigli assolutamente inventati, tipo impacchi di avocado per curare le verruche. Il sito va alla grande. Da lì alla politica internazionale il passo è breve. Siamo nel 2016 e le elezioni presidenziali in America tengono banco sui social.

I ragazzi di Veles lanciano diversi siti – all’apparenza giornalistici – con nomi tipo Politicalhall.com e USApolitics.com e iniziano a fabbricare notizie che poi postano su falsi profili social. In realtà le copiano per lo più da blog americani. Inizialmente provano a fare una cosa bipartisan con articoli pro Trump e pro Clinton. Ma presto si accorgono che le notizie pro Trump tirano di più.

In poco tempo ci sono più di 100 siti pro Trump registrati a Veles. Le notizie vengono condivise migliaia di volte. E colla pubblicità di Google i ragazzi tirano su decine di migliaia di euro.
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Ma come è possibile che un gruppo di teenager che scrivono cazzate in cattivo inglese abbiano più seguito – diciamo – di questo documentatissimo e forbitissimo podcast?

Beh. La risposta – sembra banale – è proprio che scrivono cazzate.

Come ha dimostrato uno studio dell’MIT di Boston le fake news si diffondono più rapidamente e raggiungono più persone delle notizie di provata veridicità: mentre una notizia vera può aspirare al massimo a 1.000 visualizzazioni, una fake news raggiunge in media tra 1.000 e 100.000 persone.

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E questo vale soprattutto per le situazioni ad elevata criticità come ad esempio un’elezione: un’analisi del siti d’informazione Buzzfeed ha messo in luce che nei tre mesi precedenti all’elezione americana del 2016 le fake news più cliccate di Facebook hanno ampiamente surclassato tutte le fonti di informazioni qualificate come il Washington Post, New York Times e NBC.

E la stessa cosa è capitata poco prima delle elezioni europee del maggio 2019: nelle settimane precedenti alle elezioni sono apparsi di colpo migliaia di profili Twitter che producevano a getto continuo tweet farlocchi in varie lingue. LINK

Questo perché – come diceva Turnbull, il supercattivo di Cambridge Anyltica – una notizia inventata può fare leva sulle emozioni degli utenti. E quindi provocare un maggiore coinvolgimento.

Non è cronaca. E’ letteratura, poesia. Beh. Non dico che sia buona letteratura.

“Immigrati senza diritti ricevono una pensione di 550 euro al mese e non hanno mai versato un soldo in Italia! Mentre i pensionati italiani che hanno lavorato per una vita se la sognano una pensione del genere!”

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“Immigrati del centro profughi di San Bernardo sul Brenta in rivolta perché la struttura è vicino a un canile, animale da loro considerato impuro! Grazie Boldrini!”

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“16 donne tedesche che hanno accettato di comparire sui giornali in questi giorni in Germania, sono state aggredite e stuprate da immigrati! è questo quello che il pd ha creato in tutta Europa!”

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Questi sono alcuni esempi delle migliaia di fake news raccolte dal sito di debunking “Bufale un tanto al chilo”. Sembrerà assurdo ma molte di queste sono state riprese persino dai media ufficiali.

A quanto pare l’Italia è una terra di conquista per i professionisti delle bufale. Alcune settimane fa l’ONG Avaaz ha pubblicato una lista di più di 100 pagine Facebook italiane impegnate nella diffusione sistematica di bufale – in totale le pagine raggiungono quasi 20 milioni di persone. Pagine come “Vogliamo il movimento 5 stelle al governo”, “Lega Salvini Sulmona”, “Lega Salvini Premier Santa Teresa di riva”. Tutte con centinaia di migliaia di interazioni.

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E una porzione consistente delle bufale diffuse dal network scoperto da Avaaz riguarda – rullo di tamburi – l’immigrazione.

Il motivo – l’abbiamo detto e ripetuto – è che ci sono pochi altri temi che polarizzano e provocano reazioni emotive quanto gli immigrati. Specialmente quando questi vengono presentati come stupratori, assassini o parassiti – come appunto facevano le succitate pagine.

Stando a un recente studio dell’istituto di ricerca Alto Analytics, il tema immigrazione sui social italiani è letteralmente dominato da chi diffonde il tipo di notizie che ho citato prima: quasi il 70 per cento dei post social sul tema hanno carattere fortemente negativo. Temi centrali sono la presunta invasione migratoria, criminalità e terrorismo.

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Anche durante la campagna per le elezioni europee 4 notizie su 5 riguardanti l’immigrazione sui social avevano contenuto negativo.

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E da dove vengono queste notizie? Se si guarda tra le fonti si scopre che rispettivamente al 40esimo e 58esimo posto delle fonti più citate in Italia sul tema si trovano due network che di norma non dovrebbero entrare nella top 100 dei principali media italiani. Avete indovinato: Sputnik e RT.

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E vabbeh… Vedi che torniamo sempre lì, ai russi cattivi? Non ti sembra – dice la mia sempre solerte voce interiore – di fare esattamente quello di cui accusi gli altri? Non stai descrivendo un grande complotto globale gestito da (più o meno) occulti Maestri Venerabili?

No. E ti dico subito perché, cara voce interiore.

Perché nel mio intimo nutro una profonda, radicata convinzione: i complotti, le cabale, le trame occulte sono storie che ci raccontiamo per tenere viva l’illusione che ci sia qualcuno che ha un piano, una visione – qualcuno che conosce il funzionamento intimo delle cose del Mondo.

La realtà è però più prosaica – e molto, molto più sinistra.

Internet è un serbatoio di informazioni di proporzioni colossali. Se dovessi stampare in un libro tutti i contenuti presenti in rete il libro sarebbe alto come dalla Terra alla Luna. Allo stesso tempo ci sono nel Mondo più di 4 miliardi di persone che usano internet.

Ora: come faccio ad assicurarmi che in questa enorme massa di pagine e di persone il giusto utente trovi la pagina giusta?

La risposta è: con un algoritmo. Sono algoritmi a filtrare i risultati che ottengo quando cerco qualcosa su Google. Sono algoritmi che decidono quali storie di Facebook farmi vedere e quali no. E sono algoritmi che decidono la priorità con cui leggo i messaggi di Twitter.

E su cosa si basano queste decisioni? In soldoni si basano su due fattori: popolarità e preferenze personali.

Popolarità vuol dire che se un contenuto viene visionato e condiviso da tante persone è più probabile che mi capiti davanti. Sembra logico no? Se una cosa interessa a tanti è probabile che interessi anche a me.

Ma c’è un’altra ragione: pubblicità. Da che mondo è mondo la pubblicità è tanto più efficace quanta più gente la vede, no? E anche gestori di inserzioni come Google Adsense si basano su questo principio: Quindi, più interazioni genera un contenuto più è efficace il messaggio pubblicitario ad esso associato. E più soldi entrano in cassa. Semplice no?

E quali sono i contenuti che generano più interazioni? Beh… ce lo dicono i ragazzi di Veles: messaggi ad alto impatto emotivo – non importa se veri o no.

E poi ci sono le mie preferenze personali. Ogni click, ogni parola che digito in un motore di ricerca, ogni acquisto online, ogni foto che carico sui social contribuisce alla creazione di un profilo. Se, per dire, ho cliccato tre volte su articoli di ricette l’algoritmo mi classifica come amante della cucina – e mi suggerirà altri contenuti analoghi. Allo stesso modo, se ho cliccato due volte su qualche bufala anti-immigrati l’algoritmo mi proporrà altre storie simili.

E che ci fanno Google e Facebook con questi profili? Li vendono. A inserzionisti – o ad aziende come Cambridge Analytica, che sono così in grado di elaborare campagne sempre più personalizzate, sempre più efficaci.

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Micro-targeting lo chiamano. Micro-obiettivi. Ognuno di noi è un micro-obiettivo. Così, per esempio, la mia passione per la cucina mi rende un obiettivo ideale per la pubblicità del nuovo tritatutto. E il mio interesse per gli immigrati… beh… com’ è che diceva Turnbull?

“Non sapevi di avere una certa paura finché non hai visto qualcosa che ha suscitato in te questa reazione”.

Una volta che inizi a ricevere un certo tipo di contenuti – e magari ci clicchi sopra – è difficilissimo che l’algoritmo ti proponga contenuti alternativi. Dopo il tritatutto viene un set di coltelli, dopo il set di coltelli viene il pastamatic. E così dopo l’articolo sulla pensione agli immigrati viene quello sul terrorismo islamico e dopo ancora quello sugli stupri e così via.

Piano piano l’algoritmo costruisce un muro intorno all’utente – una stanza in cui lui può di fatto solo sentire le voci di chi ha i suoi stessi interessi o la pensa come lui – una echo-chamber, la chiamano i teorici della comunicazione, una camera dell’eco.

E in questa camera più fervono le emozioni (la paura, la rabbia), più forte diventa il clamore. E più forte diventa il clamore più le emozioni vengono amplificate.  

E cascarci dentro a una di queste stanze è un attimo.

Fate questo esperimento. Andate su Youtube. Cercate “Alieni”. Cliccate sul primo video. Guardate nei video correlati.

Ecco… A me ci sono voluti esattamente due click per trovare un video che nega l’Olocausto.

La ragione? Video controversi, politicamente scorretti e provocatori attraggono più click. Quindi hanno un ranking più alto. E quindi è più facile che li veda. E una volta che ho cliccato su quel video beh… l’algoritmo comincia a costruire il muro.

E prima che diciate “Sì vabbeh, ma mica sono tutti scemi che se vedono un video diventano nazisti”… In realtà ho solo citato il caso – reale – di Doug McGuire, un americano che per anni ha perseguitato insieme a migliaia di altri fanatici i familiari delle vittime del massacro di Sandy Hook. E tutto – dice Doug, che ora lavora per un progetto di sensibilizzazione contro le fake news – è cominciato con un click su un video che parlava di alieni.

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E’ vero che Google e Facebook stanno affrontando il problema – filtrando i contenuti e combattendo attivamente la diffusione di notizie false. Ma finora i risultati sono stati minimi.

E’ anche vero che il sistema non funziona con tutti. Se, per dire, ho già una coscienza politica sviluppata è difficile che un video o un post su Facebook mi facciano cambiare idea. Ma vedete… Ci sono molte persone che la coscienza politica se la stanno formando adesso in questo momento – e se la formano soprattutto in rete.

Circa la metà delle ragazze e dei ragazzi italiani sotto i vent’anni passa più di sette ore al giorno in rete. Dalla rete ottengono tutte le principali informazioni sull’attualità e sulla politica.

E i risultati si vedono: quasi il 70 per cento di loro ha un’opinione negativa della politica. Meno della metà di loro è andata a votare alle ultime europee. E quando lo ha fatto, quasi la metà ha scelto formazioni radicali come la “Lega” e “Fratelli d’Italia”.

Capite il punto? Non è che c’è un complotto internazionale. Non è nemmeno che ci sono perfidi spin-doctor che seducono le menti. No. Abbiamo costruito una macchina che ci rende prigionieri ognuno del suo incubo personale – una specie di Matrix alla rovescia. Un incubo in cui non esiste più il vero e il falso, giusto o sbagliato, in cui è impossibile fidarsi delle istituzioni, dei media o anche delle altre persone.

Questa è la vera “Bestia”. E non parlo dell’ormai leggendario sistema di micro-targeting sviluppato dallo spin-doctor della “Lega” Luca Morisi e che – secondo alcuni eminenti giornalisti – è alla radice del successo di Matteo Salvini. La “Bestia” di Morisi non è altro che un prontuario di regole per l’uso dei social network come se ne trovano tanti in rete. Il nome però è bello.

No. Questa è un’altra Bestia. Una Bestia con tante facce. Una Bestia che – in forme diverse – popola il nostro immaginario da millenni. Una Bestia che disgrega la società e produce paura, divisione e caos.

E vidi salir dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, e sulle corna dieci diademi, e sulle teste nomi di bestemmia. […] e tutta la terra maravigliata andò dietro alla bestia; e adorarono il dragone perché avea dato il potere alla bestia; e adorarono la bestia dicendo: Chi è simile alla bestia? e chi può guerreggiare con lei?

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PER SAPERNE DI PIÙ:

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(Dis)Information: Fake It, Leak It, Spread It

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La bestia, Ep. 5

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Studio di Vladislav Surkov (fonte: trinixy.ru)

Piccolo bestiario multimediale – dall’Apocalisse alla post-verità.

Qui si parla di Facebook, Twitter, Google e altre fabbriche dei troll.

Con le voci di: Alice Moracchioli, Federico Bogazzi

Scritto da: Fabio Ghelli

Prodotto da: Federico Bogazzi e Fabio Ghelli

Musiche:

  • Hobocombo (www.hobocombo.bandcamp.com)
  • Himmelsrandt (www.himmelsrandt.bandcamp.com)
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Testi

Il blob, i testi della quarta puntata

C’è un video che è circolato molto alcune settimane fa. Siamo a Torre Maura, alla periferia di Roma. C’è un ragazzo con una giacca della tuta color antracite che parla con alcuni uomini. Il ragazzo si chiama Simone. Gli uomini sono esponenti dell’organizzazione neofascista “Casa Pound”. Sono qui perché in una palazzina del quartiere devono essere alloggiate alcune famiglie rom e loro non vogliono. Portano la criminalità, dicono.

Simone, che ha solo 15 anni, dice che è ingiusto prendersela colle minoranze. E tiene testa – da solo – a questi uomini, anche quando uno di loro gli viene a pochi centimetri e lo prende per il collo con aria di minaccia.

E’ un video che a guardarlo fa venire rabbia – e anche un po’ di paura.

C’è però una cosa che mi ha particolarmente colpito nel video – e che non riguarda Simone. E’ una frase che pronuncia uno degli uomini, un tipo colla barba e un berretto da pescatore.

FONTE

“Tu sei uno su cento. Siete 10 su mille”, dice l’esponente di “Casa Pound”. Simone, vuol dire l’uomo, è parte di una minoranza. Una minoranza esigua, irrilevante.

E’ vero? Mi chiedo. E’ vero che quello che dice Simone è condiviso solo da poche persone – e quindi, per converso, quelli che la pensano come l’uomo col cappello sono maggioranza?

Facciamo due conti.

“Casa Pound” non è esattamente un partito di massa. Alle elezioni comunali a Roma ha preso poco più dell’1 per cento. E allora che cosa vuol dire il pescatore neofascista? Forse che in Italia 99 persone su 100 hanno posizioni analoghe alle loro sui rom e sulle minoranze. Beh… Diamogli il beneficio del dubbio.

E’ vero che l’antiziganismo – cioè sentimenti negativi contro i rom e sinti – in Italia è molto diffuso, come ha messo in luce una ricerca dell’istituto di ricerca statunitense Pew Center. Parliamo di percentuali inquietanti – sopra l’80 per cento. Ma questo non vuol dire che la maggioranza degli italiani appoggi partiti politici ostili alle minoranze – specificamente a quella rom. Anche mettendo insieme le preferenze di tutti questi partiti si arriva intorno al 40 per cento. Meno della metà degli elettori.

Eppure quelle parole pesano. “Tu sei solo”, dice l’uomo col berretto a Simone mentre lui e i suoi camerati convergono sul ragazzo. Noi siamo tanti.

Il fatto è che da un po’ di tempo a questa parte ho la sensazione che molte persone in Italia e in Europa si sentano come Simone – strette, assediate da una folla ringhiante che ripete: voi siete soli. Noi siamo tanti.

Questa sensazione è particolarmente forte a pochi giorni da un’elezione europea che qualcuno ha definito “decisiva” per il destino del Vecchio Continente.

E’ un’onda che sale, come la hanno chiamata gli ideologi della nuova destra sovranista Steve Bannon e Geert Wilders. Una massa viscosa di risentimento e di livore – un lento, devastante tsunami nazionalista e razzista – che rischia di travolgere la democrazia liberale.

E noi, l’élite, i buonisti, gli illusi, i rosiconi, siamo lì sulla riva che guardiamo il fronte dell’onda avvicinarsi. E ci sentiamo soli e impotenti.

Se però un ragazzo di 15 anni ha tenuto testa alla marea nera forse non tutto è perduto. “Tu sei uno su cento”, dice l’uomo col berretto da pescatore. “Almeno io penso”, risponde Simone.

Già. A forza di sentirsi assediati, schiacciati dalla massa ribollente che avanza forse ci siamo dimenticati di pensare. Perché pensare aiuta a sentirsi meno soli. Perché, onestamente, di starmene qui a piangermi addosso e aspettare l’onda beh – per citare Simone –  “nun me sta bene che no”.

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Onda, massa, marea nera: non è che a sto giro stai un po’ esagerando, Fabio? Dice la mia voce interiore. Non è che a te – come a tanta parte della sinistra boriosa e frignona – rode semplicemente che ci sia una maggioranza di persone che la pensa diversamente da te?

E allora falla finita co’ sta storia della massa, della marea scura – come il blob alieno di quel vecchio film.

Chiama le cose col loro nome. Questo è il popolo.

È il demos che nell’agorà di Atene cessava di essere suddito e diventava soggetto politico. È il “peuple” che si scuote di dosso il giogo della tirannide di cui parla Rousseau. È il “We the people” che apre la Costituzione americana, atto di nascita della democrazia liberale. È il popolo cui la Costituzione italiana nata dalla Resistenza attribuisce la so-vra-ni-tà.

Non è il popolo a essere un’entità aliena. Sei tu. Stacce – come direbbe Simone.

Sì. Tutto giusto, voce interiore. Però, se permetti, non sono del tutto d’accordo. Il popolo è un’idea molto poetica, per carità – e quando penso all’agorà, ai Padri Fondatori, alla Costituente o al pueblo unido da persona di sinistra avverto un fremito di libertà.

Ma so anche che questo popolo unito e universale non è mai esistito.

Ad Atene c’era tutta una parte della popolazione – stranieri e abitanti delle campagne – che era di fatto esclusa dalla vita pubblica. E poi c’erano gli schiavi. Schiavi come li avevano anche i padri fondatori della nazione americana. E se è vero che il peuple di Rousseau è riuscito – almeno per un po’ – a scrollarsi il giogo dalle spalle è anche vero che l’ha fatto per ficcare la testa nel giogo della ghigliottina.

Ah… E già che ci siamo: in tutta questa Storia quando parliamo di popolo parliamo solo di uomini. Le donne sono popolo nel senso di soggetto politico attivo da meno cento anni.

Non fraintendetemi. Non dico che il popolo sia cattivo. Nella sua accezione più nobile essere “popolo” è forse la massima realizzazione del nostro naturale istinto di aggregazione.

Dico solo che il popolo è un’invenzione, un simulacro.

E meno male. Perché se c’è una cosa che la storia della democrazia ci ha insegnato è che fintanto che il popolo resta un’entità astratta – luminosa e mutevole come una nuvola – va tutto bene. Ognuno può guardare una nuvola e dire: secondo me è un’automobile, secondo me è un drago.

Il problema sorge quando la nuvola si condensa e diventa massa – quando cioè qualcuno pretende di dire chi è o che cosa è il popolo. Allora da nuvola diventa blob.

Ne sanno qualcosa i membri dell’Assemblea Costituente. Non è sicuramente un caso che questo illustre consesso, questa squadra speciale – se mi si permette – questi Avengers nati dalla lotta alla violenza e alla repressione del nazifascismo il popolo sovrano lo abbiano voluto piazzare subito lì, all’inizio.

La sovranità appartiene al popolo. Zac. Preciso. Essenziale.

Ma la frase va avanti:

La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. E’ come dire: il popolo decide, ma qui c’è una lista di cose su cui il popolo non dovrebbe decidere.

La cosa sembra semplice, ma, a quanto pare, i membri dell’Assemblea hanno dibattuto molto accanitamente sulla questione.

E si capisce perché. Dopo vent’anni di dittatura e due anni di occupazione militare, parlare di “sovranità del popolo” era sicuramente un atto profondamente liberatorio. Ma i Padri Costituenti ci vanno piano – forse perché hanno ancora davanti l’immagine della folla osannante davanti al balcone di Piazza Venezia. Sapevano bene che il popolo, come diceva anche Rousseau, può sbagliare – e può essere sedotto.

C’è però un altro limite – più sottile – che la Carta mette al popolo: da nessuna parte in questo documento così efficiente ed essenziale si dice chi o che cosa è questo popolo. E non è una svista.

Uno potrebbe pensare che siccome la sovranità appartiene al popolo e in democrazia comanda la maggioranza, il popolo sia la maggioranza degli elettori. Ma non è così: il popolo è un’entità estremamente complessa – non riducibile a un numero.

Lo dice bene il Costituzionalista Maurizio Fioravanti: “Il popolo è sovrano perché, e in quanto, la sua infinita complessità è rappresentata, senza eccezioni, nel  Parlamento. E – continua Fioravanti – il Parlamento è sovrano perché è il luogo in cui la infinita complessità, e la totalità, del popolo è rappresentata,  in modo tale da essere capace di produrre sovranità, leggi e governi”. (Fonte:)

Cioè: il popolo in un sistema democratico dobbiamo essere tutti – un concetto inclusivo e non esclusivo. Perché se comincio a dire: tu sei popolo, tu no, le cose si mettono male. Per saperlo i membri della Costituente non dovevano neppure guardare troppo lontano.

Quando alla fine dell’ ‘800 fu costruito il palazzo del Reichstag – il parlamento del neonato Regno di Germania – l’architetto, Paul Wallot, volle mettere sull’architrave la frase “Dem deutschen Volke” – al popolo tedesco, che voleva dire che quello era un monumento alla sovranità e all’unità dei tedeschi. Fino a ieri eravamo divisi – voleva dire – oggi siamo popolo.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il Volk – come spesso accade – si unì intorno al concetto di difesa della Patria. Ma non durò molto. Già dalle prime battute della Repubblica di Weimar gli scontri – spesso violenti – tra partiti della destra e della sinistra portarono alla creazione di nuovi fronti: operai contro borghesi, Sud contro Nord, nazionalisti contro internazionalisti.

Non sorprende che molti ce l’avessero coi partiti. E che volessero farla finita coi settarismi e le risse. Molti osservatori hanno riscontrato delle somiglianze colla situazione attuale. E battute che circolavano all’epoca potrebbero essere prese da un’intervista di oggi: “Io intendo semplificare la democrazia”, diceva per esempio un politico emergente. “Non rispondo al sistema dei partiti, ma solo al volere del popolo”.

Pare giusto, no? Basta coi partiti. Basta con destra e sinistra. È ora che il popolo decida per sé.

Già, ma quale popolo? Tutti nella Repubblica di Weimar, da destra a sinistra, parlano di “Volksgemeinschaft”, comunità di popolo. E poi aizzano i propri sostenitori contro il non-popolo di turno, siano essi borghesi, imboscati, secessionisti.

Ci vorrebbe che uno lo unisse questo popolo – colle buone, ma, se serve, anche colle cattive. E c’è uno che sembra avere tutti i requisiti. È quel politico emergente che voleva “semplificare la democrazia”, ricordate? Il suo nome – avete indovinato – è Adolf Hitler.

E Hitler la Volksgemeinschaft, la comunità di popolo la unisce davvero. E come? Anzitutto indicando chi al popolo non appartiene: omosessuali, disabili, zingari, ebrei. Volksfremd, li chiama il regime – estranei al popolo. E poi rendendo il popolo onnipresente, universale. Ogni elemento dell’apparato pubblico diventa Volks- qualcosa: Volksgesundheit (salute popolare), Volkseinkommen (reddito popolare), Volksaufklärung (istruzione popolare). (Fonte: https://www.bpb.de/izpb/137211/volksgemeinschaft?p=all)

Non ci sono più gli operai e gli impiegati, i borghesi e i proletari. C’è solo il popolo, un’unica grande entità dotata di un’unica volontà.

Oggi è facile pensare ai tedeschi di allora come a una massa di fantocci nelle mani del regime. Ma non era così: per molti tedeschi, messi in ginocchio dalla crisi economica e abbandonati dalle istituzioni, essere popolo voleva dire essere forti.

La scrittrice Melita Maschmann – all’epoca leader della sezione femminile dei giovani nazisti – lo dice senza mezzi termini: “Ci sentivamo per la prima volta parte di qualcosa di grande e essenziale”.

E chi non è parte di questa cosa grande e essenziale… beh… non è parte del popolo. E se non sei parte del popolo, allora sei volksfremd – estraneo al popolo. E chi è estraneo al popolo deve sparire.

Così, il popolo, il Volk, si allarga e si compatta, tenuto insieme da un sentimento più forte dello semplice spirito comunitario o del patriottismo – un sentimento che paralizza e rende docili. La paura.

Non è un caso che nel Dopoguerra la parola Volk in Germania sia stata quasi del tutto bandita dalla politica. Per i tedeschi essere popolo – quel popolo – è diventato difficile. (Fonte:)

La parola è tornata di moda colla caduta del Muro – Wir sind das Volk, gridavano i tedeschi dell’Est nell’Ottobre dell’ ‘89: noi siamo il popolo. In un interessante ricorso storico questo Volk era più simile al popolo dell’architrave del Reichstag – unito e sovrano.

Lo stesso slogan però è stato ripreso anche in tempi più recenti – con un significato diverso: “Wir sind das Volk” è anche lo slogan delle manifestazioni della nuova destra contro l’Islam e gli immigrati. Noi siamo il popolo: i tedeschi. Loro no. Loro sono volkfsfremd – estranei al popolo.

È proprio vero: la storia si ripete, prima come tragedia. Poi come video di Instagram.

In effetti sono in tanti di questi tempi a parlare volentieri di popolo – soprattutto a destra.

Questa è Marine Le Pen, leader del Rassemblement National francese, nel 2018. “Contro la destra dei soldi e contro la sinistra dei soldi, io sono la candidata del popolo”, dice. Anche lei è una a cui piace semplificare: Là c’è l’elite parigina: ricca, corrotta e maneggiona. Qui c’è lei, Marine, la voce del popolo.

Anche se è cresciuta in una villa in una delle gated communities più esclusive della Capitale a Marine il popolo piace proprio tanto. “Il popolo”, ha detto in un’intervista di alcuni anni fa, “ha sempre ragione, anche quando ha torto” (Fonte: https://www.letemps.ch/monde/peuple-toujours-raison-meme-tort). Queste cose gliele deve avere insegnate suo padre Jean-Marie – ex capo del Front National – che già nel 2007 diceva: “il popolo ha ragione e nessuno può avere ragione contro di lui”.

È un concetto quasi mistico: il popolo come unica fonte di verità. Com’è il detto: Vox populi, vox dei. E chi dissente… Beh… Non è popolo. Anzi. E’ un nemico del popolo.

“Quando diffondete notizie false siete nemici del popolo”, dice Donald Trump a un reporter della rete televisiva CNN a novembre del 2018. Un paio di settimane prima su Twitter era stato più esplicito, chiamando i media “i veri nemici del popolo”.

Anche al miliardario Trump il popolo piace proprio tanto.

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“Voglio togliere il potere alla casta dei politici e renderlo al popolo”, dice nel suo discorso di insediamento.

In tutti questi esempi si nota uno schema ricorrente: chi parla di popolo lo fa in opposizione e in contrasto con una non-meglio definita élite: media, politici, intellettuali – non necessariamente benestanti ma istruiti e un po’ snob. E questa élite, ovviamente, non appartiene al popolo. E’ volksfremd – estranea al popolo.

Forse il più chiaro è stato Matteo Salvini, che, poco dopo le elezioni del 2018, ha proprio detto così: «Non esistono più destra e sinistra, esiste solo il popolo contro le élite».

Per i politologi la dottrina che divide la società in popolo puro ed élite corrotta ha un nome: populismo. E se magari in passato l’etichetta di populista aveva una connotazione negativa, oggi essa viene rivendicata come una medaglia al valore.

Questo qui è… un momento… mmmmh… ah sì. Giuseppe Conte. Presidente del Consiglio dei Ministri. E se lo dice anche lui…

Ma in realtà di questi tempi un po’ tutti in Italia – populisti e non, a destra, a sinistra, al centro – parlano volentieri di popolo.

Ed è una cosa interessante perché negli ultimi decenni in Italia la parola “popolo” è stata usata con una certa parsimonia. Al limite si sentiva parlare di popolo del web, popolo giallorosso, popolo bue. Sì, c’era il “Popolo della Libertà” di Berlusconi ma quella suonava un po’ come una versione singhiozzante dell’originario “Polo delle Libertà”.

Se si fa una semplice ricerca su Google anno per anno si vede che tra articoli, blog, commenti e post sui social nel 2009 il lemma “popolo italiano” – al netto di espressioni formalizzate come “in nome del popolo italiano” – è stata utilizzata circa 1.400 volte. L’anno scorso è stata usata più di 14.000 volte – dieci volte di più.

Insomma: c’è una gran voglia di popolo.

E in parte è comprensibile. Perché negli ultimi anni non era per niente facile sentirsi popolo. Perché per essere Popolo colla P maiuscola bisogna avere pulsioni, emozioni, esperienze e obiettivi comuni. Bisogna condividere un destino.

Ma con un futuro sempre più precario, la disoccupazione che galoppa e più di dieci anni di crisi economica alle spalle è difficile condividere alcunché. Ed è pure difficile avere obiettivi comuni quando l’obiettivo primario è arrivare a fine mese.  

Ed ecco che il Popolo si frammenta, si liquefà come scrisse il presidente del Censis Giuseppe De Rita già dodici anni fa, prima della crisi: Viviamo – diceva all’epoca De Rita – una “disarmante esperienza del peggio” che ci rende poltiglia, mucillagine – un insieme inconcludente di “elementi individuali e di ritagli personali” tenuti insieme da un sociale di bassa lega.

E quelli che si qualificavano allora come “partiti del Popolo” – Forza Italia e il Partito Democratico – erano secondo De Rita proposte prive di senso, nel momento in cui nessuno crede più a “uno sviluppo collettivo in cui ci stiamo tutti”, uno “sviluppo di popolo”. (Fonte)

E allora? E allora ecco arrivare una nuova generazione di politici che promette di dare nuova forza al Popolo – con sentimenti e obiettivi comuni: occupazione stabile, reddito di cittadinanza, più sicurezza.

Ed ecco che molte persone insoddisfatte, deluse, frustrate trovano in quest’idea di popolo una nuova forma di appartenenza. Essere popolo li fa sentire forti e sicuri. Li fa sentire parte di qualcosa di “grande ed essenziale”. Suona familiare?

Quando nel giugno del 2018 Lega e Movimento Cinque Stelle si accordano per formare un esecutivo molti in rete celebrano il nuovo governo dicendo che finalmente c’è un “governo eletto dal popolo”. Ovviamente il popolo non elegge i governi ma tutt’al più i parlamentari – e in più la coalizione si è formata strada facendo, nella migliore tradizione proporzionalista. Ma tant’è.

I due partiti insieme arrivano intorno alla metà dei voti (circa 32 per cento i Cinque Stelle e 17 per cento la Lega). Eppure fin da subito l’esito del voto viene trattato come un plebiscito popolare. Nel luglio 2018 il neo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti della Lega (un partito che ha appena preso il 17 per cento, ricordiamolo) dice tout-court che in Italia non c’è più più l’opposizione – perché, dice Giorgetti, il popolo è con noi. (Fonte)

E’ una visione totalizzante del popolo che fa proseliti. Anche a sinistra.

Come già avvenuto in America dopo la vittoria elettorale di Donald Trump molti politici di area liberale e socialdemocratica cominciano a dire che i partiti della sinistra hanno perso il contatto col popolo. La ragione? La sinistra si sta occupando troppo delle minoranze – immigrati, omosessuali, ambientalisti – e dimentica così le aspirazioni e i desideri del popolo inteso come maggioranza delle persone.

E’ una storia avvincente. In pochi mesi non solo è rinato un popolo che sembrava morto e sepolto ma adesso sappiamo anche chi e che cosa è questo popolo: il popolo è chiunque si identifichi coll’attuale linea di governo. Gli altri non sono popolo. Sono volksfremd.

E così il popolo – quella nuvola impalpabile di ambizioni, pulsioni, emozioni ed esperienze – si condensa in un’entità concreta, dotata di forza e di volontà.

Eppure basterebbe dare un’occhiata a che cosa pensano davvero gli italiani per rendersi conto che no, il pueblo è tutt’altro che unido.

Prendiamo la questione immigrazione – un tema su cui il nuovo esecutivo ha fatto leva fin dall’inizio. E un tema su cui, apparentemente, il popolo si esprime in maniera univoca. Vari sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli italiani è decisamente a favore della linea dura contro l’immigrazione portata avanti dal governo: porti chiusi, immigrati a casa eccetera. (Fonte)

Va detto che questi sono cosiddetti sondaggi istantanei che documentano le risposte a quesiti secchi in un periodo di tempo molto limitato.

Se si guarda invece ad alcuni sondaggi che coprono periodi più lunghi e rilevano le risposte a un complesso di quesiti salta fuori un quadro un po’ diverso.

In base a una ricerca dell’istituto Ipsos Mori (Fonte: LINK) del 2018 solo un quarto degli italiani sostiene apertamente una posizione di radicale chiusura delle frontiere come quella portata avanti dall’attuale inquilino del Viminale. Circa un terzo degli italiani è, invece, favorevole ad una politica dell’accoglienza basata su principi di umanità e tolleranza. E non si tratta solo di intellettuali radical chic, ma di molti giovani (anche senza titoli di studio) e anziani, soprattutto se vicini ad ambienti cattolici.

In mezzo c’è la cosiddetta maggioranza inquieta. Questa è composta da persone senza chiaro orientamento e da coloro che si sentono insicuri o “abbandonati” dallo Stato – disoccupati, pensionati, persone di mezza età senza titoli di studio. Le loro posizioni riguardo ad immigrati e richiedenti asilo sono lo specchio delle loro ansie. Pur essendo generalmente preoccupati del futuro che li attende, essi ritengono che non si debba rinunciare ai principi di umanità – specialmente quando si tratta di proteggere famiglie e minori.

E’ un segnale incoraggiante: il popolo non la pensa tutto alla stessa maniera. E gli italiani non sono così stronzi come vorrebbe qualcuno.

Tutto bene dunque? Non tanto: un’altra indagine dell’istituto “Pew Center” rileva che l’opinione degli italiani sta cambiando molto rapidamente. Restando sul tema immigrazione: nel 2017 circa la metà degli italiani vedeva gli immigrati come un peso per la società. Un po’ meno della metà li vedeva invece come una risorsa. Nel 2018 lo scarto è massiccio: 54 per cento ribadisce che gli immigrati sono un peso. E solo il 12 per cento li ritiene una risorsa. (Fonte: )

Il popolo non la pensa tutto alla stessa maniera. Uno guarda la nuvola a vede un elefante. Un altro ci vede un cammello. Il fatto è che se però uno ti dice: “vedi quella nuvola a forma di Kamchatka” è probabile che tu ci veda la Kamchatka.

Ripenso a Simone e alla marea scura che gli si stringe intorno a Torre Maura. “Tu sei uno su cento”, dice l’uomo col cappello.

E mi viene in mente che la cosa che mi sgomenta di più di questo video non è il gruppo di neofascisti che si stringe intorno a un ragazzo solo. No: è sapere che tutto intorno ci sono persone che potrebbero dire qualcosa, magari intervenire, magari semplicemente mettersi in mezzo. E invece rimangono tutti a guardare.

I populisti – dice il politologo olandese Cas Mudde – dicono di rappresentare una maggioranza silenziosa, mentre invece rappresentano solo una minoranza molto rumorosa – una minoranza aggressiva e pervasiva, che riempie gli spazi lasciati vacanti dai partiti popolari. Come a Torre Maura. (Fonte: )

In Europa sovranisti e populisti di destra si avviano a prendere circa un quarto dei voti. Sono percentuali importanti, senza dubbio. E loro non mancano mai di farlo notare. Ma c’è un aspetto che viene spesso tralasciato quando si parla dei loro successi: a differenza dei partiti di massa i populisti – soprattutto i populisti di destra – non puntano a massimizzare il consenso ma a creare un nucleo di sostenitori, uno zoccolo duro militante.

Non a caso la comunicazione pubblica dei leader populisti da Trump a Le Pen fino a Orban e Salvini è consapevolmente radicale nel linguaggio e negli atteggiamenti. E’ fatta per dividere – per esaltare o far incazzare. Senza vie di mezzo. Si rivolge insomma ai fan, alle frange oltranziste. E sono queste frange – iperattive e rumorose – a produrre l’impressione di una massa in movimento, di un popolo in armi.

Ma questa strategia ha un difetto. Se è vero che un elettore europeo su quattro si identifica coll’agenda dei populisti è anche vero che tre su quattro sono veementemente contrari ai loro proclami.

L’Italia è attualmente il paese dell’Europa occidentale in cui i populisti di destra hanno allargato di più il proprio bacino elettorale. Ma anche se la Lega dovesse sfondare il tetto del 40 per cento c’è apparentemente più di una metà degli italiani che la politica ringhiosa e fascistoide di Salvini e compagnia “nun je sta bene che no”.

Oh… Ma allora dove sono tutti questi italiani? Com’è che se vado al bar sento solo quelli che sbraitano contro gli immigrati e i rom? Com’è che i social network sono un turbine di foto di Salvini che mangia maritozzi e hashtag prima gli italiani?

Ho un amaro sospetto: quelli che la pensano diversamente ci sono. Ma non si fanno sentire.

Mentre scrivo l’uomo col cappello da pescatore è da poco riapparso in un altro quartiere alla periferia di Roma, Casal Bruciato. Anche qui un appartamento in casa popolare è stata assegnata a una famiglia rom. L’uomo col cappello e i suoi amici sono prontamente sul posto. Ci ha chiamato il popolo, dicono. (Fonte🙂

(Fonte)

E il popolo che si raccoglie intorno al presidio ha subito molto da dire.

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Alla fine la famiglia riesce a entrare nello stabile, ma solo sotto scorta della polizia.

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Arriva un gruppo di manifestanti del Movimento per la Casa. La polizia fa cordone intorno ai neofascisti. “Nemici del popolo”, gridano questi ai manifestanti dell’altro capannello.

Gli abitanti delle case popolari stanno alla finestra e guardano i tafferugli per strada. E’ una casa popolare come ce ne sono tante in Italia – come quella in cui sono cresciuto. Decine di famiglie vivono qui porta a porta. Tutti si conoscono – o almeno tutti si conoscevano. I bambini giocano insieme in cortile.

E allora capisco: non sono i neofascisti la massa, la marea, il blob. E non è nemmeno il popolo affacciato alla finestra. No: il blob è l’indifferenza e il cinismo che serpeggiano nei cortili, nelle scale e nei corridoi – il vuoto che c’è tra appartamento e appartamento, tra famiglia e famiglia, tra noi e loro, tra popolo e non-popolo. Il vuoto in cui si infilano l’uomo col cappello e i suoi amici.

Bisogna riempire questi vuoti – colle parole, colle azioni. Tornare a parlare – anche con quello che al bar inveisce contro zingari e neri. Perché solo così la poltiglia, la mucillagine può ricomporsi pezzo per pezzo. E magari, col tempo, ridiventare popolo.