“This is hell, this is hell, I’m sorry to tell you. It never gets better nor worse. But you get used to it, after a spell. ‘Cause heaven is hell in reverse” (E. Costello)
Qui si parla di noi, oggi.
Scritto da: Fabio Ghelli
Prodotto da: Federico Bogazzi, Fabio Ghelli
Ho una confessione da fare. Io sono un po’ ipocondriaco. Nel senso che ho molta paura di virus e batteri.
Ma dico: come si fa a non aver paura di killer silenziosi e invisibil capaci di manipolare il tuo corpo e la tua mente per farti compiere determinati atti – tipo tossire, starnutire, vomitare, mordere – il tutto allo scopo di diffondere il contagio e così colpire il massimo numero di vittime possibili?
Altro che maniaci omicidi, altro che jihadisti: i serial killer più terrificanti della storia sono i microbi. Dalla peste nera all’epidemia di spagnola, fino all’AIDS e a ebola: niente ha segnato la storia dell’umanità così profondamente come le epidemie.
Ed è terrificante che questi killer possano oggi spostarsi in giro per il mondo molto rapidamente – prima ancora che qualcuno si accorga della loro esistenza – per seminare morte a migliaia di chilometri di distanza.
Quindi in un certo senso capisco che se uno sente parlare di un nuovo virus trasmesso, apparentemente, da immigrati – un virus che si diffonde con estrema rapidità colpendo in pochi mesi decine di migliaia di persone… beh… capisco che in queste circostanze uno con tutta la buona volontà possa sviluppare una certa paura degli stranieri. Specialmente quando questi stranieri vivono in comunità chiuse, culturalmente isolate, in condizioni igieniche magari un po’ precarie.
Ah. Naturalmente sto parlando dell’epidemia di poliomielite che ha colpito gli Stati Uniti nel 1916 e di cui furono ritenuti responsabili gli immigrati italiani. Di cos’altro?
Nella calda estate del 1916 decine di migliaia di persone sulla costa Est degli Stati Uniti – soprattutto bambini – furono infettate dal poliovirus. In pochi mesi si contarono più di 6.000 morti e almeno 20.000 persone affette da paralisi.
Il focolaio di infezione fu identificato nei quartieri popolari a maggioranza italiana di Brooklyn. Niente di sorprendente – si disse all’epoca: gli italiani erano noti per vivere stipati in edifici semifatiscenti in condizioni igieniche disperate. I bambini in particolare – scriveva il prestigioso New York Times – sono “sporchi stracciati e pieni di parassiti. Del tutto inadatti a essere accettati nelle scuole primarie a fianco di ben educati bambini americani”.
Un esercito di ufficiali sanitari si riversò nelle strade di Brooklyn e cominciò ad affiggere cartelli che dichiaravano l’intera area soggetta a quarantena. I nostri zii e cugini d’America erano diventati – letteralmente – degli intoccabili.
Ma l’idea che ci sia un rapporto strutturale – direi quasi patologico – tra immigrazione e malattie è molto più antica.
Anche se non sapevano che cosa di preciso causasse le malattie i nostri antenati sapevano bene che queste potevano diffondersi lungo le rotte del commercio e degli eserciti, viaggiando come clandestini a bordo di navi, carovane e convogli militari.
Così lo storico greco Tucidide era in grado di dire che l’epidemia di peste che colpì Atene nel 430 avanti Cristo era giunta al seguito di marinai provenienti dall’Egitto che a loro volta erano entrati in contatto con persone provenienti dalla Libia e dall’Etiopia. E già nel XVII secolo si sapeva che la peste che nel 1630 aveva devastato l’Italia settentrionale – quella dei “Promessi Sposi” per capirci – era stata portata in Italia dalle truppe tedesche (i famigerati lanzichenecchi) al comando di Albrecht von Wallenstein.
L’esempio per eccellenza però lo offre un’altra epidemia immortalata in un capolavoro della letteratura Italia come il Decameron di Boccaccio. Sto parlando della peste nera che colpì l’Europa nel 1346 e che uccise un terzo degli abitanti del continente.
Ecco questa orrenda epidemia pare sia giunta lungo rotte commerciali aperte neanche 50 anni prima da un certo Marco Polo – rotte che congiungevano l’Europa con una terra in cui l’esploratore veneziano aveva trovato tesori inestimabili e povertà abietta, sovrani illuminati e feroci autocrati, futuristiche tecnologie e tradizioni antichissime. Una terra misteriosa la cui imponente ombra si sarebbe stesa di lì a poco sul vecchio mondo come un sudario.
***
Ok. Facciamo il punto. Quando le persone si muovono, viaggiano, migrano, virus e batteri si muovono con loro.
Di per sé quindi l’associazione tra immigrati e agenti patogeni non è del tutto sbagliata. I virus sono programmati per infettare il massimo numero di individui possibile. Piu il portatore va in giro, più persone incontra. Piu persone incontra, più persone contagia. E più persone contagia più il virus è contento.
Non a caso Gaetan Dügas, il famoso paziente zero del virus dell’HIV era uno steward che girava mezzo mondo.
Il problema è quando si comincia a fare confusione tra portatore e virus, tra immigrati e germi.
Alcune puntate fa avevamo parlato di Joseph-Jerome Conte di Simeon, il giurista francese che, ai primi dell’800, nel corso del dibattito sul diritto di cittadinanza per i nati in Francia disse che concedere la cittadinanza ai figli di immigrati significava “infettare” la Nazione francese.
Il discorso di Simeon suona parecchio attuale. Perché ricalca un pattern narrativo molto in voga ancora oggi.
Da portatore del virus l’immigrato, lo straniero può diventare lui stesso il virus – il corpo estraneo che si infiltra nello Stato-organismo, lo infetta e indebolisce.
E in effetti: storicamente paura delle malattie, politiche anti-immigraziobe e sano, robusto razzismo vanno a braccetto.
Così per esempio: durante gli anni della peste nera migliaia di ebrei furono massacrati perché si credeva che fossero loro a diffondere il male. Nel solo giorno di San Valentino del 1349 nella città di Strasburgo furono messi al rogo quasi 2.000 persone di religione ebraica.
Probabilmente non serve ma lo dico lo stesso: colla peste gli ebrei non c’entravano nulla.
Esattamente come gli italiani non c’entravano colla poliomelite nel 1916. E gli irlandesi non erano responsabili dell’epidemia di colera che colpì gli Stati Uniti negli anni ‘30 del secolo XIX.
Eppure alle prime avvisaglie di una nuova epidemia ecco che non solo la gente comune ma anche medici e istituzioni ci mettono cinque minuti a identificare l’origine del male: cioè quelli là. Gli altri. I diversi.
Ancora a metà degli anni ’80 tutta la comunità haitiana della Florida fu messa sotto osservazione medica dopo che alcuni membri della comunità si erano ammalati di AIDS – esattamente come era avvenuto più o meno un secolo prima colla febbre gialla.
E vabbè – dirà qualcuno – ma mica è razzismo. Se so che in un certo paese c’è una certa malattia e voglio evitare che il contagio si diffonda anche da noi è solo una questione di buon senso dire: magari le persone che vengono da questo paese devono essere sottoposte a controlli sanitari. È anche per il loro bene, no?
Allora se voglio questi controlli non sono mica un razzista… no?
Beh… come posso dire… mmmh… sì, sei un po’ razzista.
Vari studi hanno infatti dimostrato che esiste un rapporto diretto tra paura delle malattie e paura del diverso, dello straniero. Due studi – uno effettuato in Danimarca e uno negli Stati Uniti – sono recentemente giunti alla stessa conclusione: e cioè che le persone che dicono di temere maggiormente i germi – e tipo si lavano le mani più spesso o disinfettato le maniglie delle porte – hanno in generale posizioni più conservatrici – e sono generalmente contrarie all’immigrazione.
Se non siete convinti provate a chiedere al più celebre germofobo del mondo.
Questo – lo avrete riconosciuto – è Donald Trump che intima al suo capo di gabinetto Dick Mulvaney di lasciare la stanza ovale – perché – orrore – ha tossito.
Ma non è che uno che non vuole che gli si tossisca vicino, si lava le mani tre volte al giorno e preferisce evitare il contatto fisico colle altre persone sia automaticamente uno stronzo razzista.
Come dicevo prima io sono un po’ ipocondriaco. E alle volte quando vedo una persona che tossisce o starnutisce sull’autobus o sul treno ho l’impulso ad allontanarmi. Specialmente se la persona è… come dire… diversa da me. Ora… non è per giustificarmi… sì è per giustificarmi… però la ricerca ci dice che questo impulso è una reazione istintiva determinata dall’evoluzione.
Tra gli ateniesi che videro sbarcare i primi malati di peste dall’Egitto nel 430 AC probabilmente quelli che si sono salvati e così hanno trasmesso i loro geni alle generazioni future erano quelli quelli che hanno detto: “Quegli stranieri cogli occhi vitrei non me la contano giusta. No no. A mangiare da loro non ci vado. Non me ne frega niente di quanto è buono sto kebab”.
I nostri istinti ci mettono di regola un po’ a adattarsi a nuove circostanze. Cioè: l’impulso a scappare ogni volta che vediamo una persona con tratti somatici diversi dai nostri e quindi potenzialmente portatrice di virus esotici è nato in un tempo in cui non esistevano né i vaccini né gli antibiotici. Quindi sì: uno istintivamente può avere un po’ paura quando il vicino di posto – mettiamo cinese – tossisce. Ma – se non è un viaggiatore del tempo appena giunto dal tardo medioevo – dovrebbe rendersi conto che questa paura è del tutto irrazionale.
Ah sì? E che mi dici di tutti i casi di tubercolosi degli ultimi anni? E’ un caso che questa malattia che si considerava debellata sia tornata a mietere vittime proprio ora che arrivano così tanti africani – specialmente se si considera che due terzi dei casi documentati hanno colpito (guarda un po’) immigrati? Ah… vedi che non è una paura irrazionale?
Mmmm… ancora una volta. No. La paura è del tutto irrazionale. Primo. E’ vero che c’è stato un leggero aumento dei casi di tubercolosi nel 2015, ma questo è avvenuto dopo una serie di anni in cui i casi erano diventati sempre meno (parliamo di circa sei casi all’anno ogni 100.000 persone) – e negli anni successivi la tendenza è tornata al ribasso. Secondo. L’Italia rimane uno dei paesi d’Europa in cui la tubercolosi ha un’incidenza bassissima.
E’ vero che ci sono stati molti casi di tubercolosi tra immigrati – come ci sono stati gravi casi di morbillo e scabbia. Ma questo ha più a che vedere colle drammatiche condizioni igieniche in cui vivono gli immigrati in molti centri di accoglienza e di primo soccorso. In più – a differenza di noi – solo pochi immigrati provenienti dall’Africa hanno fatto i regolari vaccini.
Se quindi c’è qualcuno per cui l’immigrazione è un rischio sanitario, quelli sono gli immigrati.
Questa è Fatumatá Hawa Sompare, una ragazza originaria della Guinea che nel 2014 – nel pieno della seconda ondata di panico scatenata dalla diffusione del virus dell’ebola in Africa Occidentale – è stata aggredita su un autobus a Roma.
E non è un caso isolato eh. In Italia il “dagli all’untore” sul treno o sull’autobus è diventato una specie di sport nazionale. Uno sport che si inserisce nel quadro più ampio di atti di discriminazione e aggressioni razziste – aggressioni che, come sapete, nelle ultime settimane colpiscono soprattutto la comunità cinese.
E – come spesso accade di questi tempi – il passo da un’azione violenta ma individuale come lo sputo contro una ragazza cinese sul treno a vere e proprie iniziative istituzionali è fin troppo breve.
Così i presidenti di Veneto, Lombardia, Friuli e Trentino Alto Adige si sono spinti fino a chiedere un periodo di isolamento per i bambini che sono stati recentemente in Cina. E non mi si venga a dire che la cosa riguarda anche quei bimbi italiani che fanno le vacanze in Cina. L’eco delle parole del New York Times a inizio ‘900 non potrebbe suonare più ironica: si vede che i bambini che tornano dalla Cina sono “del tutto inadatti a essere accettati nelle scuole primarie a fianco di ben educati bambini americani”… voglio dire, italiani.
Ora. Chi oggi chiede di chiudere le scuole ai bimbi cinesi lo fa con un’argomentazione apparentemente scientifica e razionale: se questi bimbi sono stati potenzialmente esposti al contagio è giusto tenerli sotto osservazione – anche nell’interesse loro e delle loro famiglie.
Confesso che da ipocondriaco sono quasi tentato di dar ragione a chi la pensa così: quando è in gioco la salute tutte le altre considerazioni – la tolleranza, la solidarietà persino l’umanità – vanno a finire nell’halipack colle garze e le siringhe usate.
Ma da persona che vive nel 21esimo secolo mi rendo anche conto del fatto che la paura della malattia offre un comodo lasciapassare ad altri – più primordiali – istinti. E permette di giustificare politiche apertamente discriminatorie.
Dall’inizio del ‘900 i controlli sanitari sulla famigerata isola di Ellis Island a New York – dove venivano passati in rassegna gli immigrati provenienti dal vecchio continente – diventarono via via più stretti. Nel 1898 solo il due per cento dei nuovi arrivati era stato respinto per motivi sanitari. Nel 1915 si era arrivati quasi al 70 per cento. E non perché gli immigrati fossero più malati o cagionevoli.
Il motivo era che i cosiddetti “nativisti” – cioè quelli che dicono di difendere gli interessi della popolazione nativa contro gli immigrati – erano diventati sempre più influenti nella politica americana.
Il panico anti-italiano scatenato dall’epidemia di polio del 1916 diede loro un’ottima ragione per chiedere di intensificare ancora di più i controlli. Pochi anni dopo il famigerato “National Origins Act” avrebbe ufficializzato la lista degli immigrati non graditi, tra cui polacchi, greci, ebrei – e naturalmente italiani.
In sintesi: la profilassi contro il contagio è giusta e sacrosanta. E viene gia effettuata con grande meticolosità. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità l’Italia ha attualmente uno dei sistemi di controllo più ampi e articolati per riconoscere e trattare i casi di infezione da corona-virus. Chi è entrato in contatto con persone infette è gia sottoposto a un monitoraggio intensivo. Persone provenienti dalla Cina che mostrano sintomi delle alte vie respiratorie vengono messe sotto stretta osservazione. Del resto… questo è quello che succede in un paese tecnologicamente avanzato e democratico nel XXI secolo.
Chi picchia un ragazzo filippino sull’autobus credendolo cinese, o chi dall’autobus fa scendere una studentessa colla mascherina, chi esclude studenti cinesi dalle proprie aule, chi annuncia “attenzione è entrato un cinese” al supermercato non sta facendo profilassi. Sta solo dimostrando un profondo livello di ignoranza e disumanità. E per questa gente la profilassi non serve. Anche perché a quanto pare queste persone sono già state infettate – e da un virus molto più insidioso e sfuggente del corona virus: il virus del razzismo.
… È quello che avrei detto in chiusura di puntata – magari in un bel crescendo musicale.
Ma questo è solo un aspetto della nostra storia.
Mentre raccoglievo dati per la puntata di oggi infatti ho cominciato a notare una cosa.
C’è una differenza qualitativa profonda tra gli atti di razzismo che nelle ultime settimane hanno colpito la comunità cinese in Italia e atti analoghi rivolti contro la comunità africana ai tempi dell’allarme ebola.
Per prima cosa se ne parla molto di più. Quasi tutti i giornali hanno documentato vari episodi di discriminazione contro persone di origine cinese o presunte tali – anche in assenza di denuncia.
Per scrupolo sono tornato a guardare chi si era occupato della questione ebola nel 2014. Fatta eccezione per il caso di Fatumata Hawa Sompare ripreso da Michele Santoro le numerose aggressioni razziste contro africani sono state documentate solo da testate vicine al mondo del volontariato e da piccoli quotidiani locali.
I motivi possono essere molteplici – ma ce ne sono due che secondo me hanno particolare rilevanza. Primo – ed è una buona notizia – il tema razzismo è maggiormente presente nel dibattito pubblico di quanto non lo fosse nel 2014. E di questo dobbiamo naturalmente ringraziare anche i governatori leghisti e il capo del loro partito.
Secondo: non ho dati a riguardo, ma mi pare che le aggressioni razziste contro cittadini di origine cinese vengano denunciate più spesso – per esempio attraverso i social media – dalle stesse vittime o dalle associazioni di immigrati rispetto a quanto avvenuto in passato per immigrati provenienti dall’Africa.
Questo fenomeno è coerente con quella che il mio amico sociologo Aladdin El-Mafalaani chiama la “soglia di coscienza della discriminazione”.
In breve: sondaggi condotti in vari paesi hanno dimostrato che immigrati e minoranze possono essere soggetti a fortissime discriminazioni – ma nonostante questo il numero di denunce per razzismo e discriminazioni può essere lo stesso molto molto basso.
Il motivo è semplice: più una persona è socialmente debole, meno strumenti ha per esprimere il proprio disagio e meno contatto ha (e vuole avere) colle istituzioni. E’ difficile che un immigrato senza regolare permesso di soggiorno vada alla polizia a denunciare un’aggressione, giusto?
Viceversa: Più gli immigrati si integrano, più si sentono parte della società, più aumenta la loro sensibilità alle discriminazioni e la loro propensione a denunciare.
Immigrati con un buon livello di istruzione, una buona padronanza della lingua e una rete di contatti sociali non incassano e zitti.
E i cinesi in Italia sono notoriamente ben integrati.
Non a caso per far fronte ai vari episodi di razzismo delle ultime settimane la comunità cinese è riuscita a organizzare in pochissimo tempo varie iniziative di solidarietà molto partecipate a cui hanno preso parte anche politici ed esponenti delle istituzioni.
Tutto bene, dunque? Possiamo chiudere?
Non ancora. Perché secondo me questa storia – indipendentemente da come e quando riusciremo a debellare il corona-virus – rivela un’ansia più profonda del contagio – un’inquietudine esistenziale che forse i nostri remoti antenati hanno già assaporato quando sentivano i primi viaggiatori provenienti dal Regno del Gran Khan raccontare storie di eserciti immensi e fantastiche macchine da guerra: la paura di non essere più il centro indiscusso dell’Universo.
Chi è stato in Cina forse sa di che cosa sto parlando.
A me è capitato mentre, una decina di anni fa, stavo attraversando il deserto di Gobi.
Ero a bordo di un piccolo pick-up con altri turisti. Intorno a noi si stendeva un paesaggio lunare – un’arida distesa pietrosa costellata di ruvide torri di pietra erose dal vento. A un certo punto in mezzo a quella desolazione ho visto una strana formazione di roccia che sembrava una gigantesca lasagna. Ho chiesto all’autista che cosa fosse. “E’ la grande muraglia”, mi ha risposto. “La parte più antica, costruita intorno al trecento avanti Cristo”.
In quel momento ho avuto una visione – una visione di uomini magri e scuri intenti a impastare calcina, trasportare mattoni, erigere impalcature sotto un sole implacabile. Li ho visti arrancare in lunghe file sotto un cielo incandescente, spingersi metro dopo metro sempre più a fondo in quello spazio così vuoto e sterminato, così ferocemente ostile alla vita umana. Il tutto per erigere quella mastodontica lasagna – e non per difesa, ma per far capire a chi stava dall’altra parte di che cosa era capace il leggendario Regno di Mezzo.
E tutto questo quando Roma non era ancora neanche un villaggio di capanne.
Ecco. A questo pensiero mi ha preso un senso di vertigine – insieme all’improvvisa certezza di non contare assolutamente un cazzo.
Quando ero bambino dei cinesi sapevo solo che mangiavano riso colle bacchette e avevano larghi cappelli a cono. Sì, nelle grandi città c’erano un paio di ristoranti cinesi ma per me, come per molti altri italiani, la Cina all’epoca era più o meno ancora quella di Marco Polo.
Questa immagine è cambiata radicalmente nel giro di pochissimi anni.
Innanzitutto perché è cambiata la Cina: Quando il presidente cinese Deng Xiao Ping decise di aprire la Repubblica Popolare al mondo e al mercato globale all’inizio degli anni ’80 il prodotto interno lordo si aggirava sui 200 miliardi di dollari l’anno. Oggi tocca i 14 mila miliardi. Dalla riforma delle imprese pubbliche negli anni ‘90 sono emersi imperi tecnologici mondiali come Huawei e Lenovo e giganti dell’e-marketing come Ali-Baba – senza contare colossi finanziari come la Bank of China che controllano investimenti in ogni angolo del Pianeta nell’ordine di 2 trilioni di dollari.
E poi la Cina adesso è davvero vicina. O almeno i cinesi lo sono. A metà anni ‘80 in Italia c’erano tra mille e duemila cinesi. Dieci anni dopo erano diventati 35.000. Oggi sono quasi dieci volte tanti: 310.000 persone – la quarta più grande comunità di stranieri in Italia.
E se in passato i cinesi erano quelli degli involtini primavera e dei wan-ton fritti, oggi sono commercianti, proprietari di aziende di import-export, imprenditori del tessile e, recentemente, anche carabinieri.
E che cosa sappiamo della comunità cinese. In primis: sono grandi lavoratoeri. Non sorprenderò nessuno dicendo che la comunità cinese è la seconda in Italia per tasso di occupazione dopo quella filippina: quasi tre quarti dei cinesi in età da lavoro hanno un impiego – un dato importante in un contesto occupazionale non dei migliori.
I cinesi residenti in Italia hanno anche un forte spirito imprenditoriale. Lo dicono persino i loro conterranei: La maggior parte di loro viene infatti dalla regione di Zehjiang, a Sud di Shanghai – una regione famosa anche in Cina per l’intraprendenza e lo zelo degli abitanti.
Dal loro lavoro traiamo anche noi grandi profitti: i cinesi in Italia contribuiscono infatti al nostro prodotto interno lordo con sei miliardi di euro e con 250 milioni di tasse l’anno. Altro fatto saliente: a differenza di altre comunità negli ultimi anni i cinesi mandano sempre meno soldi a casa, segno che i soldi che guadagnano li riinvestono da noi – e così rafforzano la nostra economia.
Sì, lo so cosa state per dire. No. Non mi sono dimenticato le altre cose
Questo succedeva circa un anno fa a Prato. Pochi mesi dopo: in un altro blitz in un’azienda della capitale toscana del tessile – e patria di una delle più vaste comunità cinesi d’Europa – vengono trovati altri otto immigrati irregolari chiusi in un capannone. Dicembre – provincia di Torino: i carabinieri arrestano due imprenditori cinesi (fratello e sorella) che facevano lavorare 30 persone con turni di 15 ore – pagati cinque euro al giorno. Gennaio 2020: due arresti in provincia di Mantova per sfruttamento della manodopera – piccola azienda tessile: 4 dipendenti, 3 irregolari. E questo solo in un anno.
Quando legge queste notizie, uno può avvertire una certa diffidenza nei confronti di questo modello produttivo. Poi, per tirarsi su di morale, uno può sempre andare a fare shopping in un discount dove invece si vendono vestiti cuciti in Bangladesh da bambini pagati neanche un euro al giorno.
Però è difficile liberarsi del tutto di questa diffidenza.
Anni fa ho abitato per un po’ nel quartiere Esquilino di Roma. Camminando per strada spesso mi sorprendevo a guardare dentro uno degli innumerevoli negozi cinesi che occupano i fondi dei palazzi ottocenteschi intorno a Piazza Vittorio. Tutti uguali. Stessi pannelli di legno bianco e grigio. Stessi espositori. Stesse pile di cartoni accumulate davanti alla porta. E quasi sempre vuoti – tranne per una Signora di mezza età china sul cellulare.
C’era qualcosa di arcano e indecifrabile in quello strano modello aziendale – come se quei negozi non fossero che una facciata dietro cui si celava un’oscura rete clandestina per il traffico di… boh… organi? Fiori di loto? Oppio?
Solo molto più tardi qualcuno mi ha spiegato la banale – e prosaica – realtà dietro quei negozi (uguali a quelli che si trovano a Firenze, Milano e in altre citta). Sono magazzini per la vendita all’ingrosso. Magazzini a cui attingono anche molti negozianti italiani.
Insomma: i misteriosi negozietti sono parte della stessa catena commerciale di cui fanno parte i rassicuranti discounter di abbigliamento italiani.
Un po’ come i capannoni cogli schiavi che lavorano 15 ore per 5 euro al giorno sono parte dell’indotto del buono e rispettabile pronto-moda “made in Italy”.
Pero all’epoca, girando per Roma, se vedevo una la luce filtrare dalle serrande dei negozi cinesi in piena notte, o se scoprivo che il vecchio panettiere era sparito e al suo posto c’era un nuovo negozio coi pannelli bianchi e grigi… non potevo fare a meno di pensare a una specie di inarrestabile, strisciante contagio.
Pare che in quegli anni – tra il 2012 e il 2013 – a Roma aprisse un negozio cinese al giorno
E non è un caso che questo fenomeno sia emerso proprio in quel periodo. Sono gli anni della crisi. Gli anni in cui imprenditori italiani erano costretti a cedere le proprie attività sotto la scure dei debiti.
Sono anche gli anni in cui gruppi finanziari cinesi cominciano ad investire in maniera massiccia in Italia – soprattutto nelle piccole e medie imprese. Attualmente gruppi cinesi hanno partecipazioni in più di 600 aziende italiane.
E sono gli anni in cui improvvisamente migliaia di esercizi commerciali passano di mano, in cui cominciano a spuntare come funghi i negozietti di chincaglierie a un euro e – dall’oggi al domani – dietro il bancone del tuo bar di fiducia non c’è più il vecchio barista cirrotico colle sue foto autografate di calciatori ma un cinese svelto e taciturno che non sa nemmeno chi sia Chinaglia.
E’ inquietante no? Proprio mentre l’Italia era indebolita, stressata, affaticata da un periodo di crisi, i cinesi sono arrivati e hanno iniziato a prendere controllo di un numero sempre più vasto di cellule… cioè di comunità, diffondendosi nel nostro organismo… voglio dire… società, in attesa di riversarsi attraverso i nostri orifizi pardon… trafori alpini verso altri organismi – cioè… paesi – del Nord Europa.
Dite che sto forzando la metafora?
Beh sì. Anche perché la realtà – come sempre – è un po’ piu complessa del mio filmaccio da ipocondriaco razzista.
Da un lato è vero che la debolezza strutturale dell’economia italiana negli ultimi anni ha consentito a molte aziende e imprenditori cinesi di acquistare attività e immobili – spesso a prezzi ridicoli. Ed è vero che spesso italiani sono stati costretti a vendere il proprio patrimonio e le proprie attività perché costretti dalla disoccupazione o dai debiti. Ed è vero che i cinesi sono spesso gli unici acquirenti disponibili – questo perché, come dicono alcuni membri della comunità, dispongono di un sistema di micro-credito interno alla comunità che permette di effettuare investimenti anche (e soprattutto) quando le banche chiudono i rubinetti.
Per capire le dimensioni di questo fenomeno basta andare su una delle decine di pagine web chiamate vendereaicinesi.it, comevendereaicinesi.it, venderefacileaicinesi.it. Lì si trovano centinaia di inserzioni in ogni regione d’Italia – in italiano e cinese: case, negozi, bar, ristoranti, ma anche automobili.
Dall’altro lato bisogna ammettere che senza capitali cinesi molte aziende italiane avrebbero chiuso i battenti tempo fa. E grazie a loro sono nate anche nuove aziende. Per dire: circa la metà delle più di 600 aziende a partecipazione cinese in Italia sono state fondate grazie ai soldi provenienti dal Celeste Impero – un’impresa non da poco in tempi di recessione. Ed è molto probabile che il barista cirrotico abbia venduto a cinesi perché alla sua età il bar era diventato un peso – e di persone disposte a lavorare senza orari da prima dell’alba a tarda sera non se ne trovano tante. Tranne i cinesi, s’intende.
Devo tornare colla mente a quella visione avuta tanti anni fa sotto il sole del deserto di Gobi. L’immagine di migliaia di persone che lavorano in un ambiente ostile. Testa bassa. Mattone dopo mattone. Per realizzare un’opera di cui probabilmente non intuivano se non in parte il significato.
E penso ai capannoni in cui operai dormono su brandine accanto alle macchine da cucire. Ai baristi che si alzano alle 4 per scaldare la macchina da caffé. E mi chiedo se loro abbiano un’idea più precisa dell’opera che stanno realizzando. Testa bassa. Euro dopo euro.
E poi penso agli italiani come me, alla mia generazione – una generazione di laureati al decimo anno fuori corso, una generazione di aperitivi in piazza e cena a casa dei miei, una generazione di – ahimé – non scappati ancora di casa nemmeno a 40 anni.
Ma non è solo il mio latente imbarazzo di fronte a questo indefesso e alieno spirito imprenditoriale, o la mia ammirazione per lo zelo fervente unito alla rigorosa disciplina del Confucianesimo che mi provoca una certa inquietudine.
È anche che mi rendo conto che per molti cinesi, soprattutto giovani, la possibilità di farcela in Italia significa non dover tornare sotto il tallone di uno Stato che, sì, da trent’anni a questa parte incoraggia la libera iniziativa – ma solo quando questa è utile ai suoi obiettivi.
Mentre parliamo le carceri cinesi sono ancora piene di detenuti politici – le cifre variano da mille a diecimila. E più di un milione di persone – soprattutto membri della minoranza uiugura di religione musulmana – sonorinchiusie in campi di rieducazione in cui torture fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno.
Forse è questa l’origine della mia paura. Non tanto che il cinese che mi siede accanto in autobus mi tossisca addosso.
No.
La mia paura è che questo Moloch politico-economico colla sua efficace combinazione di aggressivo capitalismo economico e ferrea repressione politica allunghi la sua ombra sui resti fumanti della nostra democrazia liberale e – poco a poco – ci assorba al proprio interno.
E allora noi pigri, incorreggibili, irrieducabili, liberaldemocratici, anarchici e dissidenti fuori corso saremo ridotti al ruolo di corpo estraneo, di tossine nocive all’organismo socio-economico che prospera grazie al lavoro e all’obbedienza.
Insomma. Ho paura di svegliarmi un giorno e rendermi conto che io sono il virus.
Fa bene ogni tanto mettersi a scrivere in una bella mattina come questa. Una mattina d’inverno in cui il sole che filtra tra la nebbia sembra regalarci una promessa di primavera. Una mattina d’inverno in cui la gente si scambia messaggi di incoraggiamento e persino mia mamma supera la sua tecnofobia e per la prima volta nella sua vita manda un messaggio su WhatsApp: meno male c’è speranza.
In una mattina così vorrei quasi dire: missione compiuta, dai.
I lupi sono tornati nei loro anfratti. La bestia crolla sotto il peso delle sue ambizioni. Le favole di alieni e uomini neri tornano a essere quello che sono sempre state – storie. E la marea, la grande nuvola nera, si ritira all’orizzonte.
Ma sapete… io sono un pessimista di natura. E non sono convinto che l’inverno sia davvero finito. Oh. È gennaio.
E credo credo che sarebbe un grave errore tornare all’amministrazione ordinaria come se quello che è successo negli ultimi tre-quattro anni fosse stato solo un brutto sogno – e i mostri del sogno fossero tornati nell’armadio e sotto il letto.
E’ vero che, come ci dice anche il rapporto annuale dell’ “Associazione Carta di Roma” media e opinione pubblica negli ultimi mesi sembrano essersi fatti una tisana di melissa e verbena collettiva.
Il risultato è che oggi “solo” un terzo degli italiani considerano per esempio gli immigrati una minaccia per la sicurezza – fino al 2017 erano quasi la metà. Questo vuol dire che se prima ogni volta che entrava uno straniero al bar la metá degli avventori lo guardava male, adesso lo fa solo uno su tre. Son progressi, dai.
Ma non è solo il pensionato al bar che guarda storto l’operaio del Ghana e dice: “Tienlo d’occhio quello lì” al barista cinese.
Siamo anche noi. Fino a ieri infatti non facevamo altro che parlare di paese in bilico, di stabilità a rischio, di umanità in pericolo, di ansie e paure.
Ed è proprio quest’ ansia, questo senso di disastro permanente la cosa che paradossalmente – travalicando tutti gli schieramenti politici – più di ogni altra sembra accomunarci un po’ tutti.
E da dove viene quest’ ansia?
Il grande sociologo di origine polacca Zygmunt Baumann si è posto questa domanda nell’ultimo libro che ha scritto prima di morire – e che significativamente si chiama “Stranieri alle porte”.
E Baumann ci dice che le nostre paure hanno a che fare colla dissoluzione dei legami che storicamente hanno tenuto insieme la società fino ad oggi: la famiglia, il villaggio, la comunità.
Privati di un sistema di coordinate che ci dice chiaramente qual è il nostro posto nel mondo ci sentiamo spersi e soli – come un viandante nella nebbia.
E attenzione: ci si può sentir soli anche se si ha un partner e amici e parenti. Ci si può sentire soli anche in gruppo – provate a chiedere a un’insegnante, a un’assistente sociale – ma anche a un lavoratore precario, a partita IVA, a un imprenditore in crisi.
Il problema – ci dice Baumann – è che nel nostro isolamento perdiamo la capacità di comunicare. E quando comunichiamo lo facciamo per lo più all’interno di una cerchia ristretta di persone che condividono i nostri valori, opinioni – e anche paure. E così sprofondiamo sempre più in un silenzio ansioso.
“Per superare questo senso di estraniazione”, dice il sociologo, “bisogna superare quel silenzio nato dall’alienazione, dalla distanza, dal disinteresse e dall’indifferenza”. E recuperare il filo del dialogo. Parlarsi. Anche – e soprattutto – delle cose che ci dividono.
Per esempio…
AUDIO Mix
Questa è la seconda parte di una mini-serie realizzata in collaborazione con ARCI, Contatto Radio Popolare Network e alcuni formidabili collaboratori di due progetti SPRAR in Lunigiana e a Viareggio. Se non avete ascoltato ancora la prima parte, vi consiglio di farlo ora.
Fatto? Bene.
Ho bisogno di tutta la vostra attenzione perché oggi voglio provare a fare una cosa un po’ diversa dal solito.
Voglio provare a immaginare un modo nuovo per parlarci. Una specie di manuale di conversazione in dieci lezioni. E se avete la pazienza di arrivare fino in fondo c’è anche una piccola sorpresa.
A quanto pare infatti gli strumenti per comunicare in modo diverso – anche su questioni molto controverse – ce li abbiamo già sotto il naso.
E credetemi. Ci serviranno. Forse prima di quanto crediamo.
***
Anzitutto una domanda: chi ha qualcosa da dire sull’immigrazione? Conosco diverse persone che lavorano nell’ambito dell’accoglienza per richiedenti asilo. Ogni giorno si occupano di allestire posti letto, comunicare con prefetture e commissioni territoriali, organizzare corsi di lingua e tirocini.
Io qui chiacchiero. Ma loro fanno. E credo che non ci sia nessuno più qualificato in Italia per parlare degli aspetti problematici dell’immigrazione. Eppure, mi dicono, per loro è quasi impossibile parlare di immigrati – anche tra amici e parenti. Da un lato c’è chi dice “Ma perché non ti occupi dei nostri poveri?” Dall’altro chi gli imputa di fare soldi col business dell’accoglienza. Dopo 10 ore passate a stasare cessi, caricare brandine e litigare col burocrate di turno non è che poi c’hai troppa voglia di argomentare.
Me lo diceva anche Alessia Castiglioni che lavora in un progetto SPRAR a Viareggio.
Coll’aiuto di Alessia ho portato il nostro banchetto in un caldo sabato d’ottobre sulla passeggiata a mare di Viareggio – un luogo ideale per il nostro esperimento, dal momento che il pubblico della passeggiata rappresenta un perfetto spaccato della società italiana – se gli italiani fossero per l’80% imprenditori di mezza età coi mocassini bianchi, pantaloni azzurri alla marinara, camicia di seta blè e golfino di cachemire color salmone drappeggiato intorno alle spalle.
Che dire? A noi piacciono le sfide.
E in effetti ancor prima di finire di allestire il banchetto uno di questi personaggi passa, vede il nostro bello striscione “Parliamo di immigrazione” e dice con un accento che ricorda il compianto Guido Nicheli: “Macchè parlare, sparare bisogna!” A chi? Chiedo io, curioso. A loro, mi urla il cumenda di ritorno. Ma anch’io sono uno di loro, dico. E allora stai attento.
Devo ringraziare il cumenda perché – ancor prima di cominciare – mi ha già dato la lezione numero uno: non farsi intimidire.
La retorica populista non è fatta per vincere il dibattito ma per renderlo impossibile, per zittire l’avversario. È la ragione per cui Twitter è diventato il canale di comunicazione preferito dei populisti di destra da Wilders a Trump: ogni messaggio deve essere lapidario e conclusivo. Nulla dunque sovverte il meccanismo meglio di due parole: spiegami meglio.
AUDIO Fabio
Nel momento in cui una persona si ferma e accetta di spiegare hai vinto la tua prima battaglia – quella per l’attenzione.
Questo è anche il motivo per cui, a differenza dei populisti, noi non saremo mai in grado di raggiungere le persone coi tweet e i post di Facebook. Perché la comunicazione online è una comunicazione in movimento, in cui ogni interazione è concepita come un trampolino che ti proietta verso il click successivo. Clicco dunque sono.
Noi invece dobbiamo costringere le persone a rallentare, a fermarsi.
E poi? Poi – lezione numero due – ascolta.
In vent’anni che intervisto persone ho imparato una cosa: nel primo minuto e mezzo in cui ci parli le persone – non importa se sono politici, intellettuali, imprenditori o casalinghe – in generale non dicono niente. O meglio. Dicono solo una cosa – sempre la stessa: sono qui. Ascoltami.
E tu ascolta. Annuisci. Non controbattere. Non importa se sei d’accordo o no. In realtà stai già dicendo una cosa importante: io ti ascolto. E ti capisco.
AUDIO
Ora… a molti questo può sembrare un esercizio un po’ozioso. Michela per dire che passeggia lungomare insieme a sua moglie Claudia – colombiana – e ai figli non pensa che serva a granché parlare con chi non vuol capire.
AUDIO Michela
E un po’ sarei tentato di darle ragione. Gli italiani, ci dicono vari studi, sono tra le persone più ignoranti in Europa quando si tratta di immigrazione.
La maggioranza di noi crede che un terzo delle persone che vivono in Italia siano stranieri – e metà di questi clandestini. In realtà, come gli ascoltatori più attenti gia sapranno, gli stranieri sono meno di uno su dieci – e solo circa un decimo di loro sono clandestini.
Ma vedete, è difficile che il vostro vicino di posto cognato, zio o vicino tiri fuori qualche statistica. Più probabile è che parli di invasione, di immigrati criminali o di come non si possa più uscire la sera.
Detto in altri termini: chi parla di immigrazione spesso non parla nemmeno di immigrazione. Parla di sé, delle proprie personali esperienze paure ed incertezze. E alle emozioni non si può rispondere coi fatti.
E questa è la lezione numero tre: porta il discorso sul piano personale. Chiedi alla persona di raccontare fatti della sua vita – non quello che ha sentito in televisione. Chiedi se conosce qualche immigrato di persona. Come abbiamo visto l’altra volta le generalizzazioni si fermano dove comincia l’esperienza personale.
Questo vuole anche dire che per capire l’immigrazione bisogna averla vissuta – indirettamente o meglio direttamente, come mi spiega bene la moglie di Michela, Claudia, che trent’anni fa è venuta in Italia dalla Colombia.
AUDIO Claudia
In effetti: chi è più qualificato a parlare di immigrazione se non chi ne ha un’esperienza iretta, sulla propria pelle – un’esperienza fatta di marce nel deserto e notti trascorse nella pancia di una barca alla deriva in mezzo al mare?
AUDIO Elindo 1
Elindo è un immigrato. Pardon. Un nero che viene dal Benin ed è inserito nel progetto SPRAR qui a Viareggio. Insieme a Moussa che viene dal Senegal e altri ragazzi dello SPRAR, passa a farci un saluto.
Elindo osserva la sfilata di gessati blu e cardigan beige e polo color pastello con un sorriso un po’ circospetto. Dice che di solito non esce volentieri, perché la gente spesso lo guarda male. E’ capitato pure che qualcuno gli urlasse contro. Ma non tutti gli italiani sono così – puntualizza Elindo.
Elindo 2
E mentre Elindo parla devo anch’io pensare alla mia personale esperienza di migrante. E in effetti: Chi si è sentito almeno una volta straniero in terra straniera sa come ci si sente a essere solo, isolato, confuso. E può esprimere e raccontare meglio questi sentimenti.
Per questo… lezione numero quattro: perché il tuo messaggio sia autentico deve essere portato da chi lo ha vissuto.
Sembra una banalità ma non lo è. Vari studi hanno dimostrato che persone con posizioni fortemente conservatrici su questioni di diritti civili come l’aborto e i matrimoni omosessuali possono cambiare radicalmente idea – e quindi sposare posizioni progressiste. A una condizione: se gli viene data la possibilità di parlare con persone per cui questi diritti sono una questione di vita o di morte. Ragazze madri costrette a abortire. Oppure coppie omosessuali che sognano da anni di sancire ufficialmente il proprio amore.
Se vogliamo cambiare l’opinione di molte persone sulla questione immigrazione basta farli parlare con immigrati – neri o no, non importa. Questo significa – per esempio – offrire piattaforme di dialogo a persone con esperienza di migrazione e incoraggiare forme di auto-organizzazione di gruppi di immigrati.
E magari cercare dei portavoce nelle varie comunità e formarli professionalmente.
Questo tipo di strategia ha un altro vantaggio: mette insieme immigrati e non-immigrati su un piano di parità. Non è più la paternalistica iniziativa di solidarietà di un gruppo di radical chic annoiati.
Voglio condividere questa mia brillante idea da radical chic annoiato con Elindo e Moussa, ma sono già scappati a giocare a calcio con un gruppo di ragazzi viareggini. Oh. Sono avanti.
Mettiamo che abbiate trovato un Elindo capace di parlare con tono coinvolgente e personale delle sue esperienze.
Epperò può ancora darsi che l’interlocutore sia talmente imbevuto di pregiudizi – detto fuori dai denti: che sia così convintamente razzista – da rendere impossibile qualsiasi forma di dialogo.
E qui aiuta la lezione numero cinque: attacca le idee, mai la persona.
Per carità: un razzista è un razzista è un razzista. Ma se dici a uno: sei un razzista quello o si incazza o la considera una medaglia al valore. In un modo o nell’altro hai già perso.
Questa è la principale differenza tra noi buonisti e le folte schiere dei cattivisti. Loro preferiscono sempre l’attacco personale – sia esso rivolto contro Laura Boldrini, Roberto Saviano o Liliana Segre – o anche contro un presunto buonista barra immigrazionista.
E qui ho già violato la lezione numero sei: non usare il loro lessico.
Capisco che molti lo facciano in funzione critica o ironica. Però occhio. Come dice Nanni Moretti: chi parla male, pensa male e vive male.
Vabbè dai – dicono i baluardi dell’integrità linguistica, gli indomiti spiriti liberi, nemici dell’ipocrisia e del politicamente corretto – non è che se invece di dire 100 clandestini dico 100 migranti sono affogati ho salvato la vita a qualcuno.
Giusto. Però bisogna capire una cosa: il nostro modo di parlare plasma la realtà.
Clandestino per dire viene dal latino clam – di nascosto. Clandestino è dunque uno che si nasconde – come i clandestini delle navi. Ogni volta che usiamo questa parola per indicare chi viene nel nostro paese irregolarmente imputiamo a questa persona di avere qualcosa da nascondere – e questo sebbene di regola abbia chiesto protezione volontariamente e alla luce del sole.
Questo non vuol dire assumere un tono accademico. È giusto e sensato cercare di capire con chi si ha a che fare e cercare di adattare il discorso alla bisogna.
Quindi, lezione numero sette: prima di parlare cerca di capire chi hai davanti. Se per dire un corpulento signore parte così, lancia in resta:
AUDIO Marcoaurelio
Potresti essere tentato di darti alla fuga.
Anche lì però… si tratta di capire da dove viene questa rabbia. Il Signor Marcoaurelio non mi sembra un tipo pericoloso. È arrabbiato, senz’altro. E mentre lo osservo lì seduto sulla sua sedia pieghevole accanto alla moglie – bloccata su una sedia a rotelle – è come se seguissi per un momento il filo di quell’emozione tra sportelli del ticket, sale d’aspetto e camerate d’ospedale – fino all’origine di quella rabbia sorda.
Marcoaurelio ce l’ha specialmente col PD. Ma non mi sento di dire che sia un convinto elettore di destra che odia gli immigrati.
E in effetti più parliamo più Marcaurelio si scioglie. E mi dice che il suo problema più grosso cogli immigrati è che non ce la fa a vederli trattati come bestie.
AUDIO Marcoaurelio
Stando a uno studio dell’ ONG “More in Common” che ho già citato in una precedente puntata Marcoaurelio è un ansioso umanitario, cioè una persona molto preoccupata che però è animata anche da sentimenti di profonda compassione. Se quindi si parla al suo senso di umanità, ecco che alla rabbia subentra la solidarietà. Secondo “More in Common” gli ansiosi umanitari costituiscono un quarto degli elettori italiani.
Cioè Fabio, fammi capire, mi stai dicendo che bisogna fare tipo un’analisi di mercato degli elettori?
No. Sto dicendo che – lezione numero 8 – bisogna essere prag-ma-ti-ci.
La destra populista dice di essere portavoce del popolo unito e sovrano – ma, come abbiamo visto nella puntata sulla Bestia, si affida contemporaneamente a strategie di micro-targeting che fanno leva su inclinazioni molto personali.
Questo perché le persone come Marcoaurelio non sottoscrivono a un progetto collettivo, ma a una soddisfazione del proprio bisogno di sicurezza e di conforto.
Se vuoi fare breccia in questa strategia devi capire che cosa vuole veramente Marcoaurelio. Lui per esempio vuole che gli immigrati non vengano trattati come bestie.
Lorenzo invece, che è un un imprenditore lombardo che lavora nel settore rifiuti industriali non gliene frega come vengono trattati. Ma gli interessa lo stesso che ci siano e che lavorino – s’intende per lui.
AUDIO Lorenzo
Lorenzo è quello che “More in Common” chiama un rigorista economico. Per lui gli immigrati sono una risorsa importante – a patto che non facciano storie e che magari non diventino troppo come gli italiani.
Capito il punto? Marcoaurelio e Lorenzo sono due persone profondamente differenti: uno si preoccupa di come stanno gli immigrati nei centri d’accoglienza, l’altro di quanto e come possono essere di utilità alla sua azienda.
Eppure Lorenzo e Marcaurelio sono anche molto simili: entrambi sono scontenti, sfiduciati, disamorati delle istituzioni. Ed entrambi votano Lega.
E perché?
Perche il partito di Salvini ha captato la loro profonda insoddisfazione e il loro risentimento – li ha seguiti nei loro pensieri fino a quella sala d’aspetto in ospedale, fino all’ufficio dove cercano disperatamente di far quadrare i turni in azienda, gli ha messo una mano sulla spalla e ha detto: io ti capisco. Lezione numero due, ricordate?
E la cosa affascinante è che sia l’uno che l’altro sanno che è una baggianata. Marcaurelio sa per dire che la Lega non tratterà più umanamente gli immigrati e Lorenzo sa benissimo che il blocco totale dell’immigrazione significherebbe la fine della sua azienda.
Eppure contro ogni razionalità e ogni logica, votano Lega.
E allora come si fa scusa? Se non possiamo batterli batterli coi fatti, non possiamo batterli coi meme e non possiamo nemmeno batterli colla logica, che cosa ci resta?
Ci resta – come direbbe Zygmunt Baumann – l’unica cosa che sappiamo fare meglio di loro: dialogare.
Loro sanno parlare colla gente, sì. Ma non sanno dialogare. Loro rassicurano e minacciano, promettono e intimidiscono. Ma di rado li senti veramente dialogare, cioè scambiare informazioni e idee.
Ho capito. Hai scoperto l’acqua calda. È da mo’ che diciamo andiamo a parlare colla gente, lo scambio, il dialogo.
Ma allora mi chiedo com’è che finora a uno come Giancarlo – un uomo sui 50 che prima votava a sinistra e che per sua stessa ammissione legge i giornali – nessuno ha mai spiegato come funzionano i dati sull’immigrazione in Italia.
AUDIO Giancarlo
Vedete? A volte se uno ci prova si riesce a dialogare. Oh. Non è che non sappiamo farlo. E a volte ci proviamo anche. Tipo… davanti a noi sulla passeggiata di Viareggio c’è un gazebo del PD che invita al dialogo coi cittadini. Bravi. Dico.
Solo che poi mi accorgo che quasi tutti quelli che si fermano sono amici dei membri della sezione – accorsi numerosi, forse un po’ anche per la bella giornata di sole. Marcaurelio, seduto colla moglie dirimpetto al gazebo li guarda un po’ in cagnesco.
A un certo punto una signora con un bel sorriso raggiante si stacca dal gruppo e viene verso di noi. È Gisa Mazza, Presidentessa del comitato provinciale del Partito Democratico della Versilia.
E Gisa, mi dice, si è spesa molto per promuovere una vera politica dell’accoglienza all’interno del partito. Non senza difficoltà, mi dice. Perché per molti la questione fondamentale resta quella della sicurezza.
AUDIO Gisa Mazza
E Gisa dice giustamente: dovremmo farlo anche noi, di parlare attivamente di queste cose. Amen, dico io. Ma quando?
AUDIO Gisa
Eh ho capito… la politica ha i tempi lunghi.
Ma se vi dicessi che la chiave per cambiare radicalmente il nostro modo di comunicare tra noi – indipendentemente dalle nostre convinzioni personali, dai nostri orientamenti politici, umani religiosi – se vi dicessi che questa chiave è già nelle nostre mani – e pure da un po’.
AUDIO James Fishkin
Questo è un politologo ed esperto di comunicazione dell’Università di Stanford in California che si chiama James Fishkin.
Una trentina di anni fa Fishkin ha elaborato un metodo che ha chiamato “Democrazia deliberativa” e che funziona così: Si prende un campione molto eterogeneo di persone – tra trecento e cinquecento – di diverso genere, orientamento sessuale, religione, origine, estrazione sociale, eccetera e le si mette in una grande stanza. Qui alcuni esperti offrono in maniera comprensibile dati e analisi su alcune questioni controverse – dalla corruzione, alle opere pubbliche, agli investimenti – e poi le persone sono invitate a dialogare tra di loro.
E che cosa succede? Invece di litigare, le persone scoprono di avere posizioni molto simili – e convergono su soluzioni accettabili per tutti.
Lo so: è il sogno erotico di ogni riformista. Ma il punto è che – come Fishkin ha illustrato nel suo libro “La democrazia quando la gente pensa” – il sistema funziona. E ha funzionato in un più di 70 casi in paesi diversissimi come la Mongolia, l’Argentina, il Ghana, il Canada. Persino in Irlanda del Nord, dove Fishkin è riuscito a far dialogare tra loro protestanti e cattolici.
E anche in Italia. In uno dei suoi esperimenti a Torino, Fishkin ha messo insieme un gruppo di 300 persone e ha posto due quesiti: uno sull’alta velocità Torino-Lione e uno sull’opportunità di concedere il voto agli immigrati.
Si saranno scannati – direte voi. E invece confrontando l’opinione delle persone prima e dopo l’esperimento si assiste a quella che chiamerei una rivoluzione copernicana: non solo aumentano quelli che dicono che il voto agli immigrati – con chiare limitazioni – è un progresso. Cala anche drasticamente il numero di coloro che dicono che un maggior numero di immigrati significa avere più criminalità. E aumenta la fiducia generale nella democrazia. I risultati sulla TAV andateveli a vedere da voi perché sono sorprendenti – e forse c’avrebbero risparmiato un sacco di discussioni inutili.
Ah sì perché Fishkin il suo esperimento a Torino l’ha fatto nel 2007. 13 anni fa.
Magari oggi no che c’è il sole. Ma domani dateci un’occhiata.
E magari quando arriva la prossima tempesta saremo più preparati.
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