Fa bene ogni tanto mettersi a scrivere in una bella mattina come questa. Una mattina d’inverno in cui il sole che filtra tra la nebbia sembra regalarci una promessa di primavera. Una mattina d’inverno in cui la gente si scambia messaggi di incoraggiamento e persino mia mamma supera la sua tecnofobia e per la prima volta nella sua vita manda un messaggio su WhatsApp: meno male c’è speranza.
In una mattina così vorrei quasi dire: missione compiuta, dai.
I lupi sono tornati nei loro anfratti. La bestia crolla sotto il peso delle sue ambizioni. Le favole di alieni e uomini neri tornano a essere quello che sono sempre state – storie. E la marea, la grande nuvola nera, si ritira all’orizzonte.
Ma sapete… io sono un pessimista di natura. E non sono convinto che l’inverno sia davvero finito. Oh. È gennaio.
E credo credo che sarebbe un grave errore tornare all’amministrazione ordinaria come se quello che è successo negli ultimi tre-quattro anni fosse stato solo un brutto sogno – e i mostri del sogno fossero tornati nell’armadio e sotto il letto.
E’ vero che, come ci dice anche il rapporto annuale dell’ “Associazione Carta di Roma” media e opinione pubblica negli ultimi mesi sembrano essersi fatti una tisana di melissa e verbena collettiva.
Il risultato è che oggi “solo” un terzo degli italiani considerano per esempio gli immigrati una minaccia per la sicurezza – fino al 2017 erano quasi la metà. Questo vuol dire che se prima ogni volta che entrava uno straniero al bar la metá degli avventori lo guardava male, adesso lo fa solo uno su tre. Son progressi, dai.
Ma non è solo il pensionato al bar che guarda storto l’operaio del Ghana e dice: “Tienlo d’occhio quello lì” al barista cinese.
Siamo anche noi. Fino a ieri infatti non facevamo altro che parlare di paese in bilico, di stabilità a rischio, di umanità in pericolo, di ansie e paure.
Ed è proprio quest’ ansia, questo senso di disastro permanente la cosa che paradossalmente – travalicando tutti gli schieramenti politici – più di ogni altra sembra accomunarci un po’ tutti.
E da dove viene quest’ ansia?
Il grande sociologo di origine polacca Zygmunt Baumann si è posto questa domanda nell’ultimo libro che ha scritto prima di morire – e che significativamente si chiama “Stranieri alle porte”.
E Baumann ci dice che le nostre paure hanno a che fare colla dissoluzione dei legami che storicamente hanno tenuto insieme la società fino ad oggi: la famiglia, il villaggio, la comunità.
Privati di un sistema di coordinate che ci dice chiaramente qual è il nostro posto nel mondo ci sentiamo spersi e soli – come un viandante nella nebbia.
E attenzione: ci si può sentir soli anche se si ha un partner e amici e parenti. Ci si può sentire soli anche in gruppo – provate a chiedere a un’insegnante, a un’assistente sociale – ma anche a un lavoratore precario, a partita IVA, a un imprenditore in crisi.
Il problema – ci dice Baumann – è che nel nostro isolamento perdiamo la capacità di comunicare. E quando comunichiamo lo facciamo per lo più all’interno di una cerchia ristretta di persone che condividono i nostri valori, opinioni – e anche paure. E così sprofondiamo sempre più in un silenzio ansioso.
“Per superare questo senso di estraniazione”, dice il sociologo, “bisogna superare quel silenzio nato dall’alienazione, dalla distanza, dal disinteresse e dall’indifferenza”. E recuperare il filo del dialogo. Parlarsi. Anche – e soprattutto – delle cose che ci dividono.
Per esempio…
AUDIO Mix
Questa è la seconda parte di una mini-serie realizzata in collaborazione con ARCI, Contatto Radio Popolare Network e alcuni formidabili collaboratori di due progetti SPRAR in Lunigiana e a Viareggio. Se non avete ascoltato ancora la prima parte, vi consiglio di farlo ora.
Fatto? Bene.
Ho bisogno di tutta la vostra attenzione perché oggi voglio provare a fare una cosa un po’ diversa dal solito.
Voglio provare a immaginare un modo nuovo per parlarci. Una specie di manuale di conversazione in dieci lezioni. E se avete la pazienza di arrivare fino in fondo c’è anche una piccola sorpresa.
A quanto pare infatti gli strumenti per comunicare in modo diverso – anche su questioni molto controverse – ce li abbiamo già sotto il naso.
E credetemi. Ci serviranno. Forse prima di quanto crediamo.
***
Anzitutto una domanda: chi ha qualcosa da dire sull’immigrazione? Conosco diverse persone che lavorano nell’ambito dell’accoglienza per richiedenti asilo. Ogni giorno si occupano di allestire posti letto, comunicare con prefetture e commissioni territoriali, organizzare corsi di lingua e tirocini.
Io qui chiacchiero. Ma loro fanno. E credo che non ci sia nessuno più qualificato in Italia per parlare degli aspetti problematici dell’immigrazione. Eppure, mi dicono, per loro è quasi impossibile parlare di immigrati – anche tra amici e parenti. Da un lato c’è chi dice “Ma perché non ti occupi dei nostri poveri?” Dall’altro chi gli imputa di fare soldi col business dell’accoglienza. Dopo 10 ore passate a stasare cessi, caricare brandine e litigare col burocrate di turno non è che poi c’hai troppa voglia di argomentare.
Me lo diceva anche Alessia Castiglioni che lavora in un progetto SPRAR a Viareggio.
Coll’aiuto di Alessia ho portato il nostro banchetto in un caldo sabato d’ottobre sulla passeggiata a mare di Viareggio – un luogo ideale per il nostro esperimento, dal momento che il pubblico della passeggiata rappresenta un perfetto spaccato della società italiana – se gli italiani fossero per l’80% imprenditori di mezza età coi mocassini bianchi, pantaloni azzurri alla marinara, camicia di seta blè e golfino di cachemire color salmone drappeggiato intorno alle spalle.
Che dire? A noi piacciono le sfide.
E in effetti ancor prima di finire di allestire il banchetto uno di questi personaggi passa, vede il nostro bello striscione “Parliamo di immigrazione” e dice con un accento che ricorda il compianto Guido Nicheli: “Macchè parlare, sparare bisogna!” A chi? Chiedo io, curioso. A loro, mi urla il cumenda di ritorno. Ma anch’io sono uno di loro, dico. E allora stai attento.
Devo ringraziare il cumenda perché – ancor prima di cominciare – mi ha già dato la lezione numero uno: non farsi intimidire.
La retorica populista non è fatta per vincere il dibattito ma per renderlo impossibile, per zittire l’avversario. È la ragione per cui Twitter è diventato il canale di comunicazione preferito dei populisti di destra da Wilders a Trump: ogni messaggio deve essere lapidario e conclusivo. Nulla dunque sovverte il meccanismo meglio di due parole: spiegami meglio.
AUDIO Fabio
Nel momento in cui una persona si ferma e accetta di spiegare hai vinto la tua prima battaglia – quella per l’attenzione.
Questo è anche il motivo per cui, a differenza dei populisti, noi non saremo mai in grado di raggiungere le persone coi tweet e i post di Facebook. Perché la comunicazione online è una comunicazione in movimento, in cui ogni interazione è concepita come un trampolino che ti proietta verso il click successivo. Clicco dunque sono.
Noi invece dobbiamo costringere le persone a rallentare, a fermarsi.
E poi? Poi – lezione numero due – ascolta.
In vent’anni che intervisto persone ho imparato una cosa: nel primo minuto e mezzo in cui ci parli le persone – non importa se sono politici, intellettuali, imprenditori o casalinghe – in generale non dicono niente. O meglio. Dicono solo una cosa – sempre la stessa: sono qui. Ascoltami.
E tu ascolta. Annuisci. Non controbattere. Non importa se sei d’accordo o no. In realtà stai già dicendo una cosa importante: io ti ascolto. E ti capisco.
AUDIO
Ora… a molti questo può sembrare un esercizio un po’ozioso. Michela per dire che passeggia lungomare insieme a sua moglie Claudia – colombiana – e ai figli non pensa che serva a granché parlare con chi non vuol capire.
AUDIO Michela
E un po’ sarei tentato di darle ragione. Gli italiani, ci dicono vari studi, sono tra le persone più ignoranti in Europa quando si tratta di immigrazione.
La maggioranza di noi crede che un terzo delle persone che vivono in Italia siano stranieri – e metà di questi clandestini. In realtà, come gli ascoltatori più attenti gia sapranno, gli stranieri sono meno di uno su dieci – e solo circa un decimo di loro sono clandestini.
Ma vedete, è difficile che il vostro vicino di posto cognato, zio o vicino tiri fuori qualche statistica. Più probabile è che parli di invasione, di immigrati criminali o di come non si possa più uscire la sera.
Detto in altri termini: chi parla di immigrazione spesso non parla nemmeno di immigrazione. Parla di sé, delle proprie personali esperienze paure ed incertezze. E alle emozioni non si può rispondere coi fatti.
E questa è la lezione numero tre: porta il discorso sul piano personale. Chiedi alla persona di raccontare fatti della sua vita – non quello che ha sentito in televisione. Chiedi se conosce qualche immigrato di persona. Come abbiamo visto l’altra volta le generalizzazioni si fermano dove comincia l’esperienza personale.
Questo vuole anche dire che per capire l’immigrazione bisogna averla vissuta – indirettamente o meglio direttamente, come mi spiega bene la moglie di Michela, Claudia, che trent’anni fa è venuta in Italia dalla Colombia.
AUDIO Claudia
In effetti: chi è più qualificato a parlare di immigrazione se non chi ne ha un’esperienza iretta, sulla propria pelle – un’esperienza fatta di marce nel deserto e notti trascorse nella pancia di una barca alla deriva in mezzo al mare?
AUDIO Elindo 1
Elindo è un immigrato. Pardon. Un nero che viene dal Benin ed è inserito nel progetto SPRAR qui a Viareggio. Insieme a Moussa che viene dal Senegal e altri ragazzi dello SPRAR, passa a farci un saluto.
Elindo osserva la sfilata di gessati blu e cardigan beige e polo color pastello con un sorriso un po’ circospetto. Dice che di solito non esce volentieri, perché la gente spesso lo guarda male. E’ capitato pure che qualcuno gli urlasse contro. Ma non tutti gli italiani sono così – puntualizza Elindo.
Elindo 2
E mentre Elindo parla devo anch’io pensare alla mia personale esperienza di migrante. E in effetti: Chi si è sentito almeno una volta straniero in terra straniera sa come ci si sente a essere solo, isolato, confuso. E può esprimere e raccontare meglio questi sentimenti.
Per questo… lezione numero quattro: perché il tuo messaggio sia autentico deve essere portato da chi lo ha vissuto.
Sembra una banalità ma non lo è. Vari studi hanno dimostrato che persone con posizioni fortemente conservatrici su questioni di diritti civili come l’aborto e i matrimoni omosessuali possono cambiare radicalmente idea – e quindi sposare posizioni progressiste. A una condizione: se gli viene data la possibilità di parlare con persone per cui questi diritti sono una questione di vita o di morte. Ragazze madri costrette a abortire. Oppure coppie omosessuali che sognano da anni di sancire ufficialmente il proprio amore.
Se vogliamo cambiare l’opinione di molte persone sulla questione immigrazione basta farli parlare con immigrati – neri o no, non importa. Questo significa – per esempio – offrire piattaforme di dialogo a persone con esperienza di migrazione e incoraggiare forme di auto-organizzazione di gruppi di immigrati.
E magari cercare dei portavoce nelle varie comunità e formarli professionalmente.
Questo tipo di strategia ha un altro vantaggio: mette insieme immigrati e non-immigrati su un piano di parità. Non è più la paternalistica iniziativa di solidarietà di un gruppo di radical chic annoiati.
Voglio condividere questa mia brillante idea da radical chic annoiato con Elindo e Moussa, ma sono già scappati a giocare a calcio con un gruppo di ragazzi viareggini. Oh. Sono avanti.
Mettiamo che abbiate trovato un Elindo capace di parlare con tono coinvolgente e personale delle sue esperienze.
Epperò può ancora darsi che l’interlocutore sia talmente imbevuto di pregiudizi – detto fuori dai denti: che sia così convintamente razzista – da rendere impossibile qualsiasi forma di dialogo.
E qui aiuta la lezione numero cinque: attacca le idee, mai la persona.
Per carità: un razzista è un razzista è un razzista. Ma se dici a uno: sei un razzista quello o si incazza o la considera una medaglia al valore. In un modo o nell’altro hai già perso.
Questa è la principale differenza tra noi buonisti e le folte schiere dei cattivisti. Loro preferiscono sempre l’attacco personale – sia esso rivolto contro Laura Boldrini, Roberto Saviano o Liliana Segre – o anche contro un presunto buonista barra immigrazionista.
E qui ho già violato la lezione numero sei: non usare il loro lessico.
Capisco che molti lo facciano in funzione critica o ironica. Però occhio. Come dice Nanni Moretti: chi parla male, pensa male e vive male.
Vabbè dai – dicono i baluardi dell’integrità linguistica, gli indomiti spiriti liberi, nemici dell’ipocrisia e del politicamente corretto – non è che se invece di dire 100 clandestini dico 100 migranti sono affogati ho salvato la vita a qualcuno.
Giusto. Però bisogna capire una cosa: il nostro modo di parlare plasma la realtà.
Clandestino per dire viene dal latino clam – di nascosto. Clandestino è dunque uno che si nasconde – come i clandestini delle navi. Ogni volta che usiamo questa parola per indicare chi viene nel nostro paese irregolarmente imputiamo a questa persona di avere qualcosa da nascondere – e questo sebbene di regola abbia chiesto protezione volontariamente e alla luce del sole.
Questo non vuol dire assumere un tono accademico. È giusto e sensato cercare di capire con chi si ha a che fare e cercare di adattare il discorso alla bisogna.
Quindi, lezione numero sette: prima di parlare cerca di capire chi hai davanti. Se per dire un corpulento signore parte così, lancia in resta:
AUDIO Marcoaurelio
Potresti essere tentato di darti alla fuga.
Anche lì però… si tratta di capire da dove viene questa rabbia. Il Signor Marcoaurelio non mi sembra un tipo pericoloso. È arrabbiato, senz’altro. E mentre lo osservo lì seduto sulla sua sedia pieghevole accanto alla moglie – bloccata su una sedia a rotelle – è come se seguissi per un momento il filo di quell’emozione tra sportelli del ticket, sale d’aspetto e camerate d’ospedale – fino all’origine di quella rabbia sorda.
Marcoaurelio ce l’ha specialmente col PD. Ma non mi sento di dire che sia un convinto elettore di destra che odia gli immigrati.
E in effetti più parliamo più Marcaurelio si scioglie. E mi dice che il suo problema più grosso cogli immigrati è che non ce la fa a vederli trattati come bestie.
AUDIO Marcoaurelio
Stando a uno studio dell’ ONG “More in Common” che ho già citato in una precedente puntata Marcoaurelio è un ansioso umanitario, cioè una persona molto preoccupata che però è animata anche da sentimenti di profonda compassione. Se quindi si parla al suo senso di umanità, ecco che alla rabbia subentra la solidarietà. Secondo “More in Common” gli ansiosi umanitari costituiscono un quarto degli elettori italiani.
Cioè Fabio, fammi capire, mi stai dicendo che bisogna fare tipo un’analisi di mercato degli elettori?
No. Sto dicendo che – lezione numero 8 – bisogna essere prag-ma-ti-ci.
La destra populista dice di essere portavoce del popolo unito e sovrano – ma, come abbiamo visto nella puntata sulla Bestia, si affida contemporaneamente a strategie di micro-targeting che fanno leva su inclinazioni molto personali.
Questo perché le persone come Marcoaurelio non sottoscrivono a un progetto collettivo, ma a una soddisfazione del proprio bisogno di sicurezza e di conforto.
Se vuoi fare breccia in questa strategia devi capire che cosa vuole veramente Marcoaurelio. Lui per esempio vuole che gli immigrati non vengano trattati come bestie.
Lorenzo invece, che è un un imprenditore lombardo che lavora nel settore rifiuti industriali non gliene frega come vengono trattati. Ma gli interessa lo stesso che ci siano e che lavorino – s’intende per lui.
AUDIO Lorenzo
Lorenzo è quello che “More in Common” chiama un rigorista economico. Per lui gli immigrati sono una risorsa importante – a patto che non facciano storie e che magari non diventino troppo come gli italiani.
Capito il punto? Marcoaurelio e Lorenzo sono due persone profondamente differenti: uno si preoccupa di come stanno gli immigrati nei centri d’accoglienza, l’altro di quanto e come possono essere di utilità alla sua azienda.
Eppure Lorenzo e Marcaurelio sono anche molto simili: entrambi sono scontenti, sfiduciati, disamorati delle istituzioni. Ed entrambi votano Lega.
E perché?
Perche il partito di Salvini ha captato la loro profonda insoddisfazione e il loro risentimento – li ha seguiti nei loro pensieri fino a quella sala d’aspetto in ospedale, fino all’ufficio dove cercano disperatamente di far quadrare i turni in azienda, gli ha messo una mano sulla spalla e ha detto: io ti capisco. Lezione numero due, ricordate?
E la cosa affascinante è che sia l’uno che l’altro sanno che è una baggianata. Marcaurelio sa per dire che la Lega non tratterà più umanamente gli immigrati e Lorenzo sa benissimo che il blocco totale dell’immigrazione significherebbe la fine della sua azienda.
Eppure contro ogni razionalità e ogni logica, votano Lega.
E allora come si fa scusa? Se non possiamo batterli batterli coi fatti, non possiamo batterli coi meme e non possiamo nemmeno batterli colla logica, che cosa ci resta?
Ci resta – come direbbe Zygmunt Baumann – l’unica cosa che sappiamo fare meglio di loro: dialogare.
Loro sanno parlare colla gente, sì. Ma non sanno dialogare. Loro rassicurano e minacciano, promettono e intimidiscono. Ma di rado li senti veramente dialogare, cioè scambiare informazioni e idee.
Ho capito. Hai scoperto l’acqua calda. È da mo’ che diciamo andiamo a parlare colla gente, lo scambio, il dialogo.
Ma allora mi chiedo com’è che finora a uno come Giancarlo – un uomo sui 50 che prima votava a sinistra e che per sua stessa ammissione legge i giornali – nessuno ha mai spiegato come funzionano i dati sull’immigrazione in Italia.
AUDIO Giancarlo
Vedete? A volte se uno ci prova si riesce a dialogare. Oh. Non è che non sappiamo farlo. E a volte ci proviamo anche. Tipo… davanti a noi sulla passeggiata di Viareggio c’è un gazebo del PD che invita al dialogo coi cittadini. Bravi. Dico.
Solo che poi mi accorgo che quasi tutti quelli che si fermano sono amici dei membri della sezione – accorsi numerosi, forse un po’ anche per la bella giornata di sole. Marcaurelio, seduto colla moglie dirimpetto al gazebo li guarda un po’ in cagnesco.
A un certo punto una signora con un bel sorriso raggiante si stacca dal gruppo e viene verso di noi. È Gisa Mazza, Presidentessa del comitato provinciale del Partito Democratico della Versilia.
E Gisa, mi dice, si è spesa molto per promuovere una vera politica dell’accoglienza all’interno del partito. Non senza difficoltà, mi dice. Perché per molti la questione fondamentale resta quella della sicurezza.
AUDIO Gisa Mazza
E Gisa dice giustamente: dovremmo farlo anche noi, di parlare attivamente di queste cose. Amen, dico io. Ma quando?
AUDIO Gisa
Eh ho capito… la politica ha i tempi lunghi.
Ma se vi dicessi che la chiave per cambiare radicalmente il nostro modo di comunicare tra noi – indipendentemente dalle nostre convinzioni personali, dai nostri orientamenti politici, umani religiosi – se vi dicessi che questa chiave è già nelle nostre mani – e pure da un po’.
AUDIO James Fishkin
Questo è un politologo ed esperto di comunicazione dell’Università di Stanford in California che si chiama James Fishkin.
Una trentina di anni fa Fishkin ha elaborato un metodo che ha chiamato “Democrazia deliberativa” e che funziona così: Si prende un campione molto eterogeneo di persone – tra trecento e cinquecento – di diverso genere, orientamento sessuale, religione, origine, estrazione sociale, eccetera e le si mette in una grande stanza. Qui alcuni esperti offrono in maniera comprensibile dati e analisi su alcune questioni controverse – dalla corruzione, alle opere pubbliche, agli investimenti – e poi le persone sono invitate a dialogare tra di loro.
E che cosa succede? Invece di litigare, le persone scoprono di avere posizioni molto simili – e convergono su soluzioni accettabili per tutti.
Lo so: è il sogno erotico di ogni riformista. Ma il punto è che – come Fishkin ha illustrato nel suo libro “La democrazia quando la gente pensa” – il sistema funziona. E ha funzionato in un più di 70 casi in paesi diversissimi come la Mongolia, l’Argentina, il Ghana, il Canada. Persino in Irlanda del Nord, dove Fishkin è riuscito a far dialogare tra loro protestanti e cattolici.
E anche in Italia. In uno dei suoi esperimenti a Torino, Fishkin ha messo insieme un gruppo di 300 persone e ha posto due quesiti: uno sull’alta velocità Torino-Lione e uno sull’opportunità di concedere il voto agli immigrati.
Si saranno scannati – direte voi. E invece confrontando l’opinione delle persone prima e dopo l’esperimento si assiste a quella che chiamerei una rivoluzione copernicana: non solo aumentano quelli che dicono che il voto agli immigrati – con chiare limitazioni – è un progresso. Cala anche drasticamente il numero di coloro che dicono che un maggior numero di immigrati significa avere più criminalità. E aumenta la fiducia generale nella democrazia. I risultati sulla TAV andateveli a vedere da voi perché sono sorprendenti – e forse c’avrebbero risparmiato un sacco di discussioni inutili.
Ah sì perché Fishkin il suo esperimento a Torino l’ha fatto nel 2007. 13 anni fa.
Magari oggi no che c’è il sole. Ma domani dateci un’occhiata.
E magari quando arriva la prossima tempesta saremo più preparati.