Ferragosto 2015. Ponte di Legno, vicino Brescia. È in corso la tradizionale Festa della Lega Nord. È agosto ma quassù fa un po’ fresco. Il cielo è coperto. L’atmosfera però è allegra. C’è musica: canzoni dialettali, cori della montagna. Nell’aria c’è l’odore della polenta e della carne alla brace.
L’ospite d’onore è, come di consueto, il segretario del Partito Matteo Salvini.
In questo Ferragosto un po’ nuvoloso il segretario ha tutti i motivi per essere contento: in un anno il suo partito ha dimenticato il magro 6,2 per cento preso alle elezioni europee del maggio 2014 e viaggia nei sondaggi a quota 15 per cento – meglio di Forza Italia. E il merito è tutto suo, di Salvini, che ha preso in mano un partito in pezzi, logorato gli scandali che hanno travolto il clan del Senatùr Umberto Bossi, e lo ha trasformato in uno degli schieramenti di punta della nuova onda nazionalista e anti-immigrazionista europea.
Insieme ai leader della destra radicale olandese, austriaca e francese il giovane segretario ha appena fondato una coalizione anti-europeista. Hanno idee diverse, gli amici di Salvini (leggi L’Espresso), ma su una cosa sono d’accordo: il male dell’Europa si chiama immigrazione.
E di immigrazione parla volentieri Salvini coi giornalisti accorsi a Ponte di Legno. E, nonostante il clima di festa, lo fa colla faccia scura e il tono di chi annuncia la catastrofe.
E’ in corso un genocidio, dice Salvini. Un genocidio, che vuol dire quando un’intera popolazione viene sistematicamente massacrata, sterminata – come gli ebrei durante il nazismo o gli armeni sotto l’impero ottomano o gli herero e i nama per mano dei colonizzatori tedeschi in Namibia. E’ una parola terrificante. Ci si aspetterebbe che i giornalisti intervengano, chiedano spiegazioni: dove sono questi milioni di italiani trucidati – e da chi?
E invece no. E’ la retorica colorita del dinamico leader leghista. Una battuta. Passi.
Ma non è una battuta a caso. È la culminazione di una specie di storia a puntate – una storia a metà tra il thriller fantascientifico e il giallo. Ma per essere un giallo decente manca qualcosa: c’è una vittima (gli italiani). Mancano però il movente, l’arma del delitto – e un colpevole.
Giallo a puntate, dicevo: già alcuni mesi prima ai microfoni di Radio Padania Salvini aveva parlato di “pulizia etnica”.
Nota bene: Qui Salvini parla ancora separatamente di padani e italiani. Del resto all’epoca il suo partito si chiamava ancora “Lega Nord”.
La storia che Salvini racconta è così: non è vero che gli immigrati che arrivano in Europa scappano dalla miseria, dalla fame o dalla guerra – o che al limite vogliono semplicemente un futuro migliore. No. Vengono da noi con un piano di invasione, si diffondono, si mescolano a noi, si moltiplicano e, alla fine, ci sostituiscono.
Se, messa così, la storia suona familiare è perché è la trama di uno stranoto film di fantascienza degli anni ‘50: L’Invasione degli Ultracorpi.
Però in realtà è un mito molto antico, che probabilmente affonda le sue radici nell’alba del genere umano – quando l’homo sapiens portò all’estinzione il suo diretto contendente per la sopravvivenza, l’uomo di Neanderthal, e – per così dire – lo sostituì nella catena evolutiva (leggi QUI).
Un mito potente. E Salvini lo sa. Nei mesi successivi comincia addirittura a parlare specificamente di “sostituzione etnica” – un ritornello che ripeterà anche negli anni a venire
L’idea, ovviamente, non è sua. Nella sua versione più moderna il mito della “sostituzione etnica” viene dalla penna di un intellettuale francese molto amato dalla destra, Renaud Camus. In un saggio del 2011 chiamato, guardacaso, “Le Grand Remplacement”, ovvero sia “La Grande sostituzione” Camus spiega: “E’ molto semplice: qui c’è un popolo e poi d’un tratto, nell’arco di una generazione, ecco apparire un altro popolo – o più popoli diversi.” (leggi Le Monde)
Camus non ha proprio tutti i torti. In effetti nella storia vi sono stati genocidi che hanno portato a una vera e propria sostituzione etnica – di regola quando una popolazione più tecnologicamente avanzata occupava il territorio di una popolazione più primitiva – come è avvenuto nel Continente Americano nel XVI e XVII secolo, ad esempio. E in Australia nel XVIII e XIX. Noterete una costante: a perpetrare questi genocidi sono stati Spagnoli, Portoghesi, Inglesi e tedeschi – insomma, europei bianchi.
Questo aspetto però per Camus è marginale. No, gli europei semmai sono le vittime della grande sostituzione – un’oscura, inquietante profezia.
Il libro di Camus continua ad avere grande successo: non a caso, “The Great replacement” è anche il titolo del manifesto scritto dal terrorista razzista che nel marzo del 2019 ha ucciso 50 persone in due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda. E anche quello spietato terrorista, guarda un po’, parla di “genocidio” e di “sostituzione etnica”.
Ma Camus, il Nostradamus della nuova destra, sta riciclando idee che circolano già da tempo. Alcuni fanno risalire il mito della sostituzione etnica in Francia a un romanzo scritto negli anni ‘70, “Le Camp des Saints”, di Jean Raspail – in cui un milione di rifugiati indiani approda in Costa Azzurra e, in sostanza, prende possesso della Francia.
Un arcano mito nato da un romanzo che diventa la base per una dottrina politica? Suona familiare? Eh sì: è la stessa storia dei “Protocolli dei Savi di Sion”, il famoso falso storico che è considerato il fondamento dell’antisemitismo moderno. La storia dei Protocolli è lunga e complessa e merita un approfondimento a sé. In breve: i Protocolli illustrano un piano di dominazione mondiale gestito da un’occulta rete di potenti religiosi ebrei. L’aspetto interessante è che già negli anni ‘20 si sapeva che i Protocolli erano una storia, un falso, una bufala, ma questo non ha impedito al Terzo Reich di usarli come una delle giustificazioni per l’Olocausto.
I Protocolli però hanno qualcosa in più, che la teoria della “sostituzione etnica” di Camus non ha. La sostituzione appare quasi come un fenomeno naturale – un prodotto dell’evoluzione demografica. Manca un piano, manca un’intenzione, una cabala. E manca un nemico.
Ed ecco il piano Kalergi.
Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi sarebbe probabilmente rimasto un nome noto soltanto agli storici della modernità. L’intellettuale austro-giapponese è sicuramente un personaggio molto interessante. Pacifista e cosmopolita, Kalergi crede fortemente nella necessità di un’ Unione di Stati europei per garantire la pace e la stabilità nel Vecchio Continente – un’opinione abbastanza impopolare nel periodo tra le due Guerre. Fonda per questo l’Unione Paneuropea, un movimento a cui hanno aderito nel tempo personaggi del calibro di Thomas Mann e Albert Einstein.
Ma non è per il suo pacifismo o il suo europeismo che Kalergi è improvvisamente diventato l’arcinemico dell’estrema destra europea. No. E’ grazie a un neonazista, negazionista e terrorista austriaco che si chiama Gerd Honsik.
Da giovane Honsik odiava l’Italia e tirava bombe incendiarie contro l’ambasciata italiana a Vienna. Poi cogli anni si è calmato e ha cominciato a scrivere libri. Libri dai titoli promettenti, come ad esempio “Assoluzione per Hitler” e a organizzare conferenze di gente che non crede all’Olocausto – una di queste in Iran.
Tra un processo per incitazione all’odio razziale e l’altro Honsik trova il tempo di leggere gli scritti di Kalergi e si imbatte in un passaggio che lo fa sobbalzare. Nel quarto capitolo del suo libro del 1925 “Idealismo Pratico” Kalergi, figlio di padre austriaco e madre giapponese, tesse le lodi della mescolanza tra razze diverse. E dice che, mentre in campagna le persone di un villaggio tendono a praticare l’endogamia, cioé ad accoppiarsi tra loro, in città c’è una maggiore mescolanza di popoli, razze e culture. Questo fa dell’uomo di campagna un uomo di carattere forte ma di spirito debole. L’uomo di città invece è intellettualmente più elevato, ma manca di carattere. Fin qui tutto bene.
Kalergi poi pronostica: “L’uomo del futuro sarà un Mischling, cioé un incrocio, un meticcio. E le razze e le caste di oggi scompariranno grazie al superamento dei limiti di spazio, di tempo e di pregiudizio.”
Eccolo lì: il piano segreto. L’Unione Europea – dice l’ex terrorista Honsik nel suo libro “Un razzismo legalizzato” – erede della Paneuropa di Kalergi vuole creare un mondo di meticci, deboli di carattere e per questo facili da soggiogare.
I pezzi del puzzle piano piano vanno a posto: c’è un movente (la sostituzione etnica), un colpevole (l’Unione Europea e i suoi sostenitori) e un’arma del delitto (l’immigrazione).
Ma ancora manca una cosa per rendere il Piano Kalergi un degno erede dei Protocolli dei Savi di Sion. Per quanto si voglia dare credito a Honsik, il Conte Kalergi è obiettivamente una nota a pié pagina della storia contemporanea. E poi diciamocelo: “Piano Kalergi” suona come uno strumento musicale.
Manca un mandante, un nemico come si deve – come lo erano i potenti ebrei dei Protocolli. Ma niente paura: un ebreo a cui dare la colpa di tutto si trova sempre.
Capitalista spietato per gli uni, comunista per gli altri. Nemico della democrazia e messia liberal-democratico. Sporco ebreo e feroce antisemita. Del finanziere americano di origini ungheresi George Soros si è detto veramente tutto e il contrario di tutto.
Su di lui circolano un’infinità di storie – e non da oggi. Già nel ‘95 il presidente slovacco gli ha imputato di aver ordito un colpo di stato ai suoi danni. Nel ‘97 il primo ministro malese lo ha accusato di essere a capo di un complotto ebraico per destabilizzare il sud-est asiatico.
Alcune di queste storie hanno dell’incredibile: Nel 2016 la televisione di Stato rumena ha detto di avere le prove che le proteste anti-corruzione nel paese erano finanziate da Soros – e, come prova, ha pubblicato il tariffario per i manifestanti: 24 dollari per un adulto, 12 dollari per un bambino e 7 dollari e 20 per un cane (leggi QUI). Scoop: Il miliardario Soros getta letteralmente i soldi in pasto ai cani.
Ma perché proprio Soros?
Perché George Soros, nato György Schwartz a Budapest da famiglia ebrea non-osservante nel 1930, è un nemico trasversale – che possono odiare tutti, di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, religiosi e atei.
Per cominciare è ebreo e il suo nome ha sostituito in molte teorie antisemite del complotto quello più famoso dei Rothschild – i banchieri che incarnano da vari secoli lo stereotipo degli occulti Signori del Mondo. Ma è un ebreo sui generis, molto critico verso la destra sionista, tanto da essere stato accusato di antisemitismo – nientemeno che dal premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Poi è uno speculatore che ha fatto soldi alimentando alcune delle grandi crisi finanziarie degli anni ‘90 – puntando, tra le altre cose, sulla svalutazione della lira nel 1992. E non è che queste cose servano a farsi degli amici.
Ma c’è una ragione ulteriore per la quale Soros è al momento un bersaglio di tutta la destra nazionalista, sovranista e populista. Donald Trump lo accusa di pianificare un’invasione degli Stati Uniti; il presidente Viktor Orban ha tappezzato l’Ungheria di poster colla sua faccia è la scritta “Facciamogli passare la voglia di ridere”; Vladimir Putin ha messo al bando tutte le sue attività in Russia; e il presidente filippino Rodrigo Duterte, giusto per non passare da moderato, ha direttamente piazzato una taglia sulla sua testa.
E non è che ci si fermi alle parole: nell’ottobre 2018 l’FBI ha trovato un pacco bomba davanti alla casa del finanziere 90enne.
Ma perché tanta foga? Perché tanto astio? Perché Soros non è un finanziere qualsiasi. A voler forzare la metafora, Soros è un po’ come Batman: di giorno magnate della finanza, di notte attivista che gioca secondo le sue regole. Solo che il suo mentore non è Liam Neeson ma un filosofo inglese: Karl Popper.
Soros ha conosciuto Popper quando studiava filosofia alla London School of Economics and Political Science. Ed è rimasto affascinato da quella che Popper alla fine delle Seconda Guerra Mondiale chiama la teoria della “Open Society”, la “società aperta”. Dalle ceneri dell’Europa postbellica, Popper si augurava, può emergere una nuova società – tollerante, plurale, ispirata agli ideali di democrazia liberale – più robusta contro l’avanzata del totalitarismo.
E la passione per la filosofia politica non abbandona Soros nemmeno quando comincia a fare successo nell’alta finanza. Tra un affare e l’altro scrive decine di libri e, poco prima della caduta del Muro di Berlino, dà vita a una fondazione ispirata ai valori di Popper in Europa orientale. Questa fondazione diventerà poi la “Open Society Foundations”.
Oggi la fondazione di Soros è attiva in più di 100 paesi e finanzia progetti che vanno dall’educazione democratica ai diritti umani fino all’integrazione degli immigrati e al razzismo. E lo fa – guardacaso – in molti paesi che sono diventati un campo di battaglia delle armate sovraniste: l’Ucraina, l’Ungheria, la Germania, l’Italia, gli Stati Uniti.
A questo punto devo aprire una parentesi personale. Io lavoro per un progetto in Germania che è co-finanziato dalla “Open Society Foundations” di Soros. Aaah – dite giustamente – è chiaro che lo difendi: ti paga.
Beh… Allora facciamoci dire il perché del suo successo da uno dei suoi più feroci critici: “Soros è odiato perché è efficace”, lo dice Steve Bannon, l’ex consigliere per la sicurezza di Donald Trump e ideologo della nuova destra sovranista globale. E uno dei libri più citati da Bannon, guarda un po’ è le Camps des Saints di Jean Raspail. E così il cerchio si chiude.
E allora, ecco l’ultima puntata del giallo, l’ultimo capitolo della nostra storia: il “piano Kalergi” diventa il “piano Soros”. Chi promuove l’abolizione di tutte le frontiere? Soros! Chi organizza l’invasione dell’Occidente? Soros! Chi finanzia le ONG che salvano i naufraghi nel Mediterraneo? Soros Soros Soros! E poi lascia stare che nessuna delle ONG è finanziata dalla Open Society Foundations. Come si dice: è il pensiero che conta.
Ma il “Piano Soros” è molto di più: il delitto perfetto, un piano-matrioska in cui infilare di tutto: dall’invasione migratoria alla liberalizzazione delle droghe fino alla distruzione della famiglia tradizionale. A te la parola, Matteo:
Le storie, i racconti, sono armi potenti. Per tornare all’homo sapiens: secondo gli antropologi una delle caratteristiche essenziali che gli hanno permesso di affermarsi a danno dei suoi diretti concorrenti è che l’homo sapiens era l’unica specie tra tutte quelle del genere homo, con una mitologia. Cioé non sapeva solo trasmettere esperienze e osservazioni – cosa che sanno fare anche altri primati – ma sapeva creare un intero universo e condividerlo con altri – e in questo modo sviluppare progetti, stringere legami e mettere insieme altri individui che credevano agli stessi miti, alle stesse storie.
Le storie sono armi potenti perché ci permettono di ridurre un mondo difficile, complicato, in continuo mutamento a qualcosa di comprensibile come una favola o un film di Hollywood: qui ci siamo noi (il popolo, gli europei, la gente) e lì ci sono gli altri (le élite, i burocrati, gli immigrati).
Le storie sono armi potenti. E non importa se tutti sanno che sono delle bufale. Certo, smascherare i bugiardi è un lavoro importante. Ma non basta dire che una storia non è vera. Anche se tutti sapevano che i “Protocolli dei Savi di Sion” erano falsi, questo non ha fermato l’Olocausto. Non basta dire che una storia non è vera. Bisogna capire da dove viene e perché qualcuno la racconta.
Le storie sono armi potenti. E lo sono soprattutto quando chi le racconta sceglie il momento giusto.
Mentre in quel ferragosto nuvoloso i militanti leghisti coi loro elmi vichinghi mescolano la polenta e attizzano la griglia e Salvini intanto parla coi giornalisti di genocidio degli italiani, c’è una carovana di persone che dalla Macedonia e dalla Serbia sta arrivando in Ungheria. Sono centinaia di migliaia – in prevalenza profughi di guerra siriani. Sono sbarcati in Grecia dalla Turchia e ora cercano disperatamente di raggiungere il Nord Europa. Entro pochi mesi diventeranno più di un milione – la più grande emergenza umanitaria che l’Europa abbia visto dai tempi della Guerra nei Balcani.
Dall’anno precedente è cresciuto anche il numero di immigrati che arrivano sulle coste italiane. In questo momento sono soprattutto famiglie di siriani che hanno cercato rifugio in Libia e che qui hanno trovato un’altra, feroce guerra civile. In un anno il numero di sbarchi è passato da circa 50.000 a 140.000.
Tutte queste cose Salvini le sa bene. E sa che la storia che sta raccontando è un seme che cade in un terreno molto fertile.
Di lì a poco comincerà a parlare concretamente di come fermare questa presunta invasione. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.