C’è un video che è circolato molto alcune settimane fa. Siamo a Torre Maura, alla periferia di Roma. C’è un ragazzo con una giacca della tuta color antracite che parla con alcuni uomini. Il ragazzo si chiama Simone. Gli uomini sono esponenti dell’organizzazione neofascista “Casa Pound”. Sono qui perché in una palazzina del quartiere devono essere alloggiate alcune famiglie rom e loro non vogliono. Portano la criminalità, dicono.
Simone, che ha solo 15 anni, dice che è ingiusto prendersela colle minoranze. E tiene testa – da solo – a questi uomini, anche quando uno di loro gli viene a pochi centimetri e lo prende per il collo con aria di minaccia.
E’ un video che a guardarlo fa venire rabbia – e anche un po’ di paura.
C’è però una cosa che mi ha particolarmente colpito nel video – e che non riguarda Simone. E’ una frase che pronuncia uno degli uomini, un tipo colla barba e un berretto da pescatore.
“Tu sei uno su cento. Siete 10 su mille”, dice l’esponente di “Casa Pound”. Simone, vuol dire l’uomo, è parte di una minoranza. Una minoranza esigua, irrilevante.
E’ vero? Mi chiedo. E’ vero che quello che dice Simone è condiviso solo da poche persone – e quindi, per converso, quelli che la pensano come l’uomo col cappello sono maggioranza?
Facciamo due conti.
“Casa Pound” non è esattamente un partito di massa. Alle elezioni comunali a Roma ha preso poco più dell’1 per cento. E allora che cosa vuol dire il pescatore neofascista? Forse che in Italia 99 persone su 100 hanno posizioni analoghe alle loro sui rom e sulle minoranze. Beh… Diamogli il beneficio del dubbio.
E’ vero che l’antiziganismo – cioè sentimenti negativi contro i rom e sinti – in Italia è molto diffuso, come ha messo in luce una ricerca dell’istituto di ricerca statunitense Pew Center. Parliamo di percentuali inquietanti – sopra l’80 per cento. Ma questo non vuol dire che la maggioranza degli italiani appoggi partiti politici ostili alle minoranze – specificamente a quella rom. Anche mettendo insieme le preferenze di tutti questi partiti si arriva intorno al 40 per cento. Meno della metà degli elettori.
Eppure quelle parole pesano. “Tu sei solo”, dice l’uomo col berretto a Simone mentre lui e i suoi camerati convergono sul ragazzo. Noi siamo tanti.
Il fatto è che da un po’ di tempo a questa parte ho la sensazione che molte persone in Italia e in Europa si sentano come Simone – strette, assediate da una folla ringhiante che ripete: voi siete soli. Noi siamo tanti.
Questa sensazione è particolarmente forte a pochi giorni da un’elezione europea che qualcuno ha definito “decisiva” per il destino del Vecchio Continente.
E’ un’onda che sale, come la hanno chiamata gli ideologi della nuova destra sovranista Steve Bannon e Geert Wilders. Una massa viscosa di risentimento e di livore – un lento, devastante tsunami nazionalista e razzista – che rischia di travolgere la democrazia liberale.
E noi, l’élite, i buonisti, gli illusi, i rosiconi, siamo lì sulla riva che guardiamo il fronte dell’onda avvicinarsi. E ci sentiamo soli e impotenti.
Se però un ragazzo di 15 anni ha tenuto testa alla marea nera forse non tutto è perduto. “Tu sei uno su cento”, dice l’uomo col berretto da pescatore. “Almeno io penso”, risponde Simone.
Già. A forza di sentirsi assediati, schiacciati dalla massa ribollente che avanza forse ci siamo dimenticati di pensare. Perché pensare aiuta a sentirsi meno soli. Perché, onestamente, di starmene qui a piangermi addosso e aspettare l’onda beh – per citare Simone – “nun me sta bene che no”.
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Onda, massa, marea nera: non è che a sto giro stai un po’ esagerando, Fabio? Dice la mia voce interiore. Non è che a te – come a tanta parte della sinistra boriosa e frignona – rode semplicemente che ci sia una maggioranza di persone che la pensa diversamente da te?
E allora falla finita co’ sta storia della massa, della marea scura – come il blob alieno di quel vecchio film.
Chiama le cose col loro nome. Questo è il popolo.
È il demos che nell’agorà di Atene cessava di essere suddito e diventava soggetto politico. È il “peuple” che si scuote di dosso il giogo della tirannide di cui parla Rousseau. È il “We the people” che apre la Costituzione americana, atto di nascita della democrazia liberale. È il popolo cui la Costituzione italiana nata dalla Resistenza attribuisce la so-vra-ni-tà.
Non è il popolo a essere un’entità aliena. Sei tu. Stacce – come direbbe Simone.
Sì. Tutto giusto, voce interiore. Però, se permetti, non sono del tutto d’accordo. Il popolo è un’idea molto poetica, per carità – e quando penso all’agorà, ai Padri Fondatori, alla Costituente o al pueblo unido da persona di sinistra avverto un fremito di libertà.
Ma so anche che questo popolo unito e universale non è mai esistito.
Ad Atene c’era tutta una parte della popolazione – stranieri e abitanti delle campagne – che era di fatto esclusa dalla vita pubblica. E poi c’erano gli schiavi. Schiavi come li avevano anche i padri fondatori della nazione americana. E se è vero che il peuple di Rousseau è riuscito – almeno per un po’ – a scrollarsi il giogo dalle spalle è anche vero che l’ha fatto per ficcare la testa nel giogo della ghigliottina.
Ah… E già che ci siamo: in tutta questa Storia quando parliamo di popolo parliamo solo di uomini. Le donne sono popolo nel senso di soggetto politico attivo da meno cento anni.
Non fraintendetemi. Non dico che il popolo sia cattivo. Nella sua accezione più nobile essere “popolo” è forse la massima realizzazione del nostro naturale istinto di aggregazione.
Dico solo che il popolo è un’invenzione, un simulacro.
E meno male. Perché se c’è una cosa che la storia della democrazia ci ha insegnato è che fintanto che il popolo resta un’entità astratta – luminosa e mutevole come una nuvola – va tutto bene. Ognuno può guardare una nuvola e dire: secondo me è un’automobile, secondo me è un drago.
Il problema sorge quando la nuvola si condensa e diventa massa – quando cioè qualcuno pretende di dire chi è o che cosa è il popolo. Allora da nuvola diventa blob.
Ne sanno qualcosa i membri dell’Assemblea Costituente. Non è sicuramente un caso che questo illustre consesso, questa squadra speciale – se mi si permette – questi Avengers nati dalla lotta alla violenza e alla repressione del nazifascismo il popolo sovrano lo abbiano voluto piazzare subito lì, all’inizio.
La sovranità appartiene al popolo. Zac. Preciso. Essenziale.
Ma la frase va avanti:
La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. E’ come dire: il popolo decide, ma qui c’è una lista di cose su cui il popolo non dovrebbe decidere.
La cosa sembra semplice, ma, a quanto pare, i membri dell’Assemblea hanno dibattuto molto accanitamente sulla questione.
E si capisce perché. Dopo vent’anni di dittatura e due anni di occupazione militare, parlare di “sovranità del popolo” era sicuramente un atto profondamente liberatorio. Ma i Padri Costituenti ci vanno piano – forse perché hanno ancora davanti l’immagine della folla osannante davanti al balcone di Piazza Venezia. Sapevano bene che il popolo, come diceva anche Rousseau, può sbagliare – e può essere sedotto.
C’è però un altro limite – più sottile – che la Carta mette al popolo: da nessuna parte in questo documento così efficiente ed essenziale si dice chi o che cosa è questo popolo. E non è una svista.
Uno potrebbe pensare che siccome la sovranità appartiene al popolo e in democrazia comanda la maggioranza, il popolo sia la maggioranza degli elettori. Ma non è così: il popolo è un’entità estremamente complessa – non riducibile a un numero.
Lo dice bene il Costituzionalista Maurizio Fioravanti: “Il popolo è sovrano perché, e in quanto, la sua infinita complessità è rappresentata, senza eccezioni, nel Parlamento. E – continua Fioravanti – il Parlamento è sovrano perché è il luogo in cui la infinita complessità, e la totalità, del popolo è rappresentata, in modo tale da essere capace di produrre sovranità, leggi e governi”. (Fonte:)
Cioè: il popolo in un sistema democratico dobbiamo essere tutti – un concetto inclusivo e non esclusivo. Perché se comincio a dire: tu sei popolo, tu no, le cose si mettono male. Per saperlo i membri della Costituente non dovevano neppure guardare troppo lontano.
Quando alla fine dell’ ‘800 fu costruito il palazzo del Reichstag – il parlamento del neonato Regno di Germania – l’architetto, Paul Wallot, volle mettere sull’architrave la frase “Dem deutschen Volke” – al popolo tedesco, che voleva dire che quello era un monumento alla sovranità e all’unità dei tedeschi. Fino a ieri eravamo divisi – voleva dire – oggi siamo popolo.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il Volk – come spesso accade – si unì intorno al concetto di difesa della Patria. Ma non durò molto. Già dalle prime battute della Repubblica di Weimar gli scontri – spesso violenti – tra partiti della destra e della sinistra portarono alla creazione di nuovi fronti: operai contro borghesi, Sud contro Nord, nazionalisti contro internazionalisti.
Non sorprende che molti ce l’avessero coi partiti. E che volessero farla finita coi settarismi e le risse. Molti osservatori hanno riscontrato delle somiglianze colla situazione attuale. E battute che circolavano all’epoca potrebbero essere prese da un’intervista di oggi: “Io intendo semplificare la democrazia”, diceva per esempio un politico emergente. “Non rispondo al sistema dei partiti, ma solo al volere del popolo”.
Pare giusto, no? Basta coi partiti. Basta con destra e sinistra. È ora che il popolo decida per sé.
Già, ma quale popolo? Tutti nella Repubblica di Weimar, da destra a sinistra, parlano di “Volksgemeinschaft”, comunità di popolo. E poi aizzano i propri sostenitori contro il non-popolo di turno, siano essi borghesi, imboscati, secessionisti.
Ci vorrebbe che uno lo unisse questo popolo – colle buone, ma, se serve, anche colle cattive. E c’è uno che sembra avere tutti i requisiti. È quel politico emergente che voleva “semplificare la democrazia”, ricordate? Il suo nome – avete indovinato – è Adolf Hitler.
E Hitler la Volksgemeinschaft, la comunità di popolo la unisce davvero. E come? Anzitutto indicando chi al popolo non appartiene: omosessuali, disabili, zingari, ebrei. Volksfremd, li chiama il regime – estranei al popolo. E poi rendendo il popolo onnipresente, universale. Ogni elemento dell’apparato pubblico diventa Volks- qualcosa: Volksgesundheit (salute popolare), Volkseinkommen (reddito popolare), Volksaufklärung (istruzione popolare). (Fonte: https://www.bpb.de/izpb/137211/volksgemeinschaft?p=all)
Non ci sono più gli operai e gli impiegati, i borghesi e i proletari. C’è solo il popolo, un’unica grande entità dotata di un’unica volontà.
Oggi è facile pensare ai tedeschi di allora come a una massa di fantocci nelle mani del regime. Ma non era così: per molti tedeschi, messi in ginocchio dalla crisi economica e abbandonati dalle istituzioni, essere popolo voleva dire essere forti.
La scrittrice Melita Maschmann – all’epoca leader della sezione femminile dei giovani nazisti – lo dice senza mezzi termini: “Ci sentivamo per la prima volta parte di qualcosa di grande e essenziale”.
E chi non è parte di questa cosa grande e essenziale… beh… non è parte del popolo. E se non sei parte del popolo, allora sei volksfremd – estraneo al popolo. E chi è estraneo al popolo deve sparire.
Così, il popolo, il Volk, si allarga e si compatta, tenuto insieme da un sentimento più forte dello semplice spirito comunitario o del patriottismo – un sentimento che paralizza e rende docili. La paura.
Non è un caso che nel Dopoguerra la parola Volk in Germania sia stata quasi del tutto bandita dalla politica. Per i tedeschi essere popolo – quel popolo – è diventato difficile. (Fonte:)
La parola è tornata di moda colla caduta del Muro – Wir sind das Volk, gridavano i tedeschi dell’Est nell’Ottobre dell’ ‘89: noi siamo il popolo. In un interessante ricorso storico questo Volk era più simile al popolo dell’architrave del Reichstag – unito e sovrano.
Lo stesso slogan però è stato ripreso anche in tempi più recenti – con un significato diverso: “Wir sind das Volk” è anche lo slogan delle manifestazioni della nuova destra contro l’Islam e gli immigrati. Noi siamo il popolo: i tedeschi. Loro no. Loro sono volkfsfremd – estranei al popolo.
È proprio vero: la storia si ripete, prima come tragedia. Poi come video di Instagram.
In effetti sono in tanti di questi tempi a parlare volentieri di popolo – soprattutto a destra.
Questa è Marine Le Pen, leader del Rassemblement National francese, nel 2018. “Contro la destra dei soldi e contro la sinistra dei soldi, io sono la candidata del popolo”, dice. Anche lei è una a cui piace semplificare: Là c’è l’elite parigina: ricca, corrotta e maneggiona. Qui c’è lei, Marine, la voce del popolo.
Anche se è cresciuta in una villa in una delle gated communities più esclusive della Capitale a Marine il popolo piace proprio tanto. “Il popolo”, ha detto in un’intervista di alcuni anni fa, “ha sempre ragione, anche quando ha torto” (Fonte: https://www.letemps.ch/monde/peuple-toujours-raison-meme-tort). Queste cose gliele deve avere insegnate suo padre Jean-Marie – ex capo del Front National – che già nel 2007 diceva: “il popolo ha ragione e nessuno può avere ragione contro di lui”.
È un concetto quasi mistico: il popolo come unica fonte di verità. Com’è il detto: Vox populi, vox dei. E chi dissente… Beh… Non è popolo. Anzi. E’ un nemico del popolo.
“Quando diffondete notizie false siete nemici del popolo”, dice Donald Trump a un reporter della rete televisiva CNN a novembre del 2018. Un paio di settimane prima su Twitter era stato più esplicito, chiamando i media “i veri nemici del popolo”.
Anche al miliardario Trump il popolo piace proprio tanto.
“Voglio togliere il potere alla casta dei politici e renderlo al popolo”, dice nel suo discorso di insediamento.
In tutti questi esempi si nota uno schema ricorrente: chi parla di popolo lo fa in opposizione e in contrasto con una non-meglio definita élite: media, politici, intellettuali – non necessariamente benestanti ma istruiti e un po’ snob. E questa élite, ovviamente, non appartiene al popolo. E’ volksfremd – estranea al popolo.
Forse il più chiaro è stato Matteo Salvini, che, poco dopo le elezioni del 2018, ha proprio detto così: «Non esistono più destra e sinistra, esiste solo il popolo contro le élite».
Per i politologi la dottrina che divide la società in popolo puro ed élite corrotta ha un nome: populismo. E se magari in passato l’etichetta di populista aveva una connotazione negativa, oggi essa viene rivendicata come una medaglia al valore.
Questo qui è… un momento… mmmmh… ah sì. Giuseppe Conte. Presidente del Consiglio dei Ministri. E se lo dice anche lui…
Ma in realtà di questi tempi un po’ tutti in Italia – populisti e non, a destra, a sinistra, al centro – parlano volentieri di popolo.
Ed è una cosa interessante perché negli ultimi decenni in Italia la parola “popolo” è stata usata con una certa parsimonia. Al limite si sentiva parlare di popolo del web, popolo giallorosso, popolo bue. Sì, c’era il “Popolo della Libertà” di Berlusconi ma quella suonava un po’ come una versione singhiozzante dell’originario “Polo delle Libertà”.
Se si fa una semplice ricerca su Google anno per anno si vede che tra articoli, blog, commenti e post sui social nel 2009 il lemma “popolo italiano” – al netto di espressioni formalizzate come “in nome del popolo italiano” – è stata utilizzata circa 1.400 volte. L’anno scorso è stata usata più di 14.000 volte – dieci volte di più.
Insomma: c’è una gran voglia di popolo.
E in parte è comprensibile. Perché negli ultimi anni non era per niente facile sentirsi popolo. Perché per essere Popolo colla P maiuscola bisogna avere pulsioni, emozioni, esperienze e obiettivi comuni. Bisogna condividere un destino.
Ma con un futuro sempre più precario, la disoccupazione che galoppa e più di dieci anni di crisi economica alle spalle è difficile condividere alcunché. Ed è pure difficile avere obiettivi comuni quando l’obiettivo primario è arrivare a fine mese.
Ed ecco che il Popolo si frammenta, si liquefà come scrisse il presidente del Censis Giuseppe De Rita già dodici anni fa, prima della crisi: Viviamo – diceva all’epoca De Rita – una “disarmante esperienza del peggio” che ci rende poltiglia, mucillagine – un insieme inconcludente di “elementi individuali e di ritagli personali” tenuti insieme da un sociale di bassa lega.
E quelli che si qualificavano allora come “partiti del Popolo” – Forza Italia e il Partito Democratico – erano secondo De Rita proposte prive di senso, nel momento in cui nessuno crede più a “uno sviluppo collettivo in cui ci stiamo tutti”, uno “sviluppo di popolo”. (Fonte)
E allora? E allora ecco arrivare una nuova generazione di politici che promette di dare nuova forza al Popolo – con sentimenti e obiettivi comuni: occupazione stabile, reddito di cittadinanza, più sicurezza.
Ed ecco che molte persone insoddisfatte, deluse, frustrate trovano in quest’idea di popolo una nuova forma di appartenenza. Essere popolo li fa sentire forti e sicuri. Li fa sentire parte di qualcosa di “grande ed essenziale”. Suona familiare?
Quando nel giugno del 2018 Lega e Movimento Cinque Stelle si accordano per formare un esecutivo molti in rete celebrano il nuovo governo dicendo che finalmente c’è un “governo eletto dal popolo”. Ovviamente il popolo non elegge i governi ma tutt’al più i parlamentari – e in più la coalizione si è formata strada facendo, nella migliore tradizione proporzionalista. Ma tant’è.
I due partiti insieme arrivano intorno alla metà dei voti (circa 32 per cento i Cinque Stelle e 17 per cento la Lega). Eppure fin da subito l’esito del voto viene trattato come un plebiscito popolare. Nel luglio 2018 il neo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti della Lega (un partito che ha appena preso il 17 per cento, ricordiamolo) dice tout-court che in Italia non c’è più più l’opposizione – perché, dice Giorgetti, il popolo è con noi. (Fonte)
E’ una visione totalizzante del popolo che fa proseliti. Anche a sinistra.
Come già avvenuto in America dopo la vittoria elettorale di Donald Trump molti politici di area liberale e socialdemocratica cominciano a dire che i partiti della sinistra hanno perso il contatto col popolo. La ragione? La sinistra si sta occupando troppo delle minoranze – immigrati, omosessuali, ambientalisti – e dimentica così le aspirazioni e i desideri del popolo inteso come maggioranza delle persone.
E’ una storia avvincente. In pochi mesi non solo è rinato un popolo che sembrava morto e sepolto ma adesso sappiamo anche chi e che cosa è questo popolo: il popolo è chiunque si identifichi coll’attuale linea di governo. Gli altri non sono popolo. Sono volksfremd.
E così il popolo – quella nuvola impalpabile di ambizioni, pulsioni, emozioni ed esperienze – si condensa in un’entità concreta, dotata di forza e di volontà.
Eppure basterebbe dare un’occhiata a che cosa pensano davvero gli italiani per rendersi conto che no, il pueblo è tutt’altro che unido.
Prendiamo la questione immigrazione – un tema su cui il nuovo esecutivo ha fatto leva fin dall’inizio. E un tema su cui, apparentemente, il popolo si esprime in maniera univoca. Vari sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli italiani è decisamente a favore della linea dura contro l’immigrazione portata avanti dal governo: porti chiusi, immigrati a casa eccetera. (Fonte)
Va detto che questi sono cosiddetti sondaggi istantanei che documentano le risposte a quesiti secchi in un periodo di tempo molto limitato.
Se si guarda invece ad alcuni sondaggi che coprono periodi più lunghi e rilevano le risposte a un complesso di quesiti salta fuori un quadro un po’ diverso.
In base a una ricerca dell’istituto Ipsos Mori (Fonte: LINK) del 2018 solo un quarto degli italiani sostiene apertamente una posizione di radicale chiusura delle frontiere come quella portata avanti dall’attuale inquilino del Viminale. Circa un terzo degli italiani è, invece, favorevole ad una politica dell’accoglienza basata su principi di umanità e tolleranza. E non si tratta solo di intellettuali radical chic, ma di molti giovani (anche senza titoli di studio) e anziani, soprattutto se vicini ad ambienti cattolici.
In mezzo c’è la cosiddetta maggioranza inquieta. Questa è composta da persone senza chiaro orientamento e da coloro che si sentono insicuri o “abbandonati” dallo Stato – disoccupati, pensionati, persone di mezza età senza titoli di studio. Le loro posizioni riguardo ad immigrati e richiedenti asilo sono lo specchio delle loro ansie. Pur essendo generalmente preoccupati del futuro che li attende, essi ritengono che non si debba rinunciare ai principi di umanità – specialmente quando si tratta di proteggere famiglie e minori.
E’ un segnale incoraggiante: il popolo non la pensa tutto alla stessa maniera. E gli italiani non sono così stronzi come vorrebbe qualcuno.
Tutto bene dunque? Non tanto: un’altra indagine dell’istituto “Pew Center” rileva che l’opinione degli italiani sta cambiando molto rapidamente. Restando sul tema immigrazione: nel 2017 circa la metà degli italiani vedeva gli immigrati come un peso per la società. Un po’ meno della metà li vedeva invece come una risorsa. Nel 2018 lo scarto è massiccio: 54 per cento ribadisce che gli immigrati sono un peso. E solo il 12 per cento li ritiene una risorsa. (Fonte: )
Il popolo non la pensa tutto alla stessa maniera. Uno guarda la nuvola a vede un elefante. Un altro ci vede un cammello. Il fatto è che se però uno ti dice: “vedi quella nuvola a forma di Kamchatka” è probabile che tu ci veda la Kamchatka.
Ripenso a Simone e alla marea scura che gli si stringe intorno a Torre Maura. “Tu sei uno su cento”, dice l’uomo col cappello.
E mi viene in mente che la cosa che mi sgomenta di più di questo video non è il gruppo di neofascisti che si stringe intorno a un ragazzo solo. No: è sapere che tutto intorno ci sono persone che potrebbero dire qualcosa, magari intervenire, magari semplicemente mettersi in mezzo. E invece rimangono tutti a guardare.
I populisti – dice il politologo olandese Cas Mudde – dicono di rappresentare una maggioranza silenziosa, mentre invece rappresentano solo una minoranza molto rumorosa – una minoranza aggressiva e pervasiva, che riempie gli spazi lasciati vacanti dai partiti popolari. Come a Torre Maura. (Fonte: )
In Europa sovranisti e populisti di destra si avviano a prendere circa un quarto dei voti. Sono percentuali importanti, senza dubbio. E loro non mancano mai di farlo notare. Ma c’è un aspetto che viene spesso tralasciato quando si parla dei loro successi: a differenza dei partiti di massa i populisti – soprattutto i populisti di destra – non puntano a massimizzare il consenso ma a creare un nucleo di sostenitori, uno zoccolo duro militante.
Non a caso la comunicazione pubblica dei leader populisti da Trump a Le Pen fino a Orban e Salvini è consapevolmente radicale nel linguaggio e negli atteggiamenti. E’ fatta per dividere – per esaltare o far incazzare. Senza vie di mezzo. Si rivolge insomma ai fan, alle frange oltranziste. E sono queste frange – iperattive e rumorose – a produrre l’impressione di una massa in movimento, di un popolo in armi.
Ma questa strategia ha un difetto. Se è vero che un elettore europeo su quattro si identifica coll’agenda dei populisti è anche vero che tre su quattro sono veementemente contrari ai loro proclami.
L’Italia è attualmente il paese dell’Europa occidentale in cui i populisti di destra hanno allargato di più il proprio bacino elettorale. Ma anche se la Lega dovesse sfondare il tetto del 40 per cento c’è apparentemente più di una metà degli italiani che la politica ringhiosa e fascistoide di Salvini e compagnia “nun je sta bene che no”.
Oh… Ma allora dove sono tutti questi italiani? Com’è che se vado al bar sento solo quelli che sbraitano contro gli immigrati e i rom? Com’è che i social network sono un turbine di foto di Salvini che mangia maritozzi e hashtag prima gli italiani?
Ho un amaro sospetto: quelli che la pensano diversamente ci sono. Ma non si fanno sentire.
Mentre scrivo l’uomo col cappello da pescatore è da poco riapparso in un altro quartiere alla periferia di Roma, Casal Bruciato. Anche qui un appartamento in casa popolare è stata assegnata a una famiglia rom. L’uomo col cappello e i suoi amici sono prontamente sul posto. Ci ha chiamato il popolo, dicono. (Fonte🙂
E il popolo che si raccoglie intorno al presidio ha subito molto da dire.
Alla fine la famiglia riesce a entrare nello stabile, ma solo sotto scorta della polizia.
Arriva un gruppo di manifestanti del Movimento per la Casa. La polizia fa cordone intorno ai neofascisti. “Nemici del popolo”, gridano questi ai manifestanti dell’altro capannello.
Gli abitanti delle case popolari stanno alla finestra e guardano i tafferugli per strada. E’ una casa popolare come ce ne sono tante in Italia – come quella in cui sono cresciuto. Decine di famiglie vivono qui porta a porta. Tutti si conoscono – o almeno tutti si conoscevano. I bambini giocano insieme in cortile.
E allora capisco: non sono i neofascisti la massa, la marea, il blob. E non è nemmeno il popolo affacciato alla finestra. No: il blob è l’indifferenza e il cinismo che serpeggiano nei cortili, nelle scale e nei corridoi – il vuoto che c’è tra appartamento e appartamento, tra famiglia e famiglia, tra noi e loro, tra popolo e non-popolo. Il vuoto in cui si infilano l’uomo col cappello e i suoi amici.
Bisogna riempire questi vuoti – colle parole, colle azioni. Tornare a parlare – anche con quello che al bar inveisce contro zingari e neri. Perché solo così la poltiglia, la mucillagine può ricomporsi pezzo per pezzo. E magari, col tempo, ridiventare popolo.